O l’Europa si muove abbattendo tutti gli errori compiuti su Green Deal e iper regolamentazione, oppure il danno che ci faremo da soli sarà maggiore di quello dei dazi di Trump. Precipitiamoci a votare sì al Mercosur e a intese commerciali con paesi
Modesta opinione personale. Ora che sui dazi siamo al redde rationem, non è tempo di geremiadi e lagne, ma di freddezza e serietà. Nessuno è in grado oggi di dire come finirà la trattativa tra Stati Uniti e Unione europea, nei pochi giorni che ci separano dalla nuova deadline posta da Trump al primo agosto, dopo aver scritto alla Ue che si deve preparare a un dazio generale del 30 per cento su tutti i suoi prodotti, e che se per caso l’Europa adottasse dazi vendicativi, le tariffe americane sui prodotti europei salirebbero ulteriormente di un’analoga percentuale. Ogni giorno si sprecano stime e analisi sugli effetti disastrosi che le nuove tariffe americane avrebbero sulla manifattura, sui lavoratori e sul pil della Ue e dell’Italia. Ma a guardar bene storia e numeri, senza concedersi a ottimismi di maniera è comunque il caso di frenare la galoppante distopia.
Partiamo da una considerazione. Politica e istituzioni europee si sono fatte cogliere impreparate. E’ stato un grave errore non capire che Trump eletto avrebbe fatto esattamente quel che prometteva da anni. E’ più che mai convinto che i dazi siano lo strumento principe per tre finalità: alzare il prezzo dell’accesso mondiale al mercato americano, accrescere il costo dell’aspettativa di poter contare sulla difesa militare da parte degli Usa, creare una “moneta doganale” grazie alla quale il tesoro Usa possa finanziare i tagli delle tasse agli americani.
A queste tre finalità degli alti dazi ha aggiunto semmai a sorpresa un solo elemento: la promozione e l’utilizzo in vasta scala delle stable coins per sottoscrivere fette crescenti del debito federale nel caso – puntualmente confermato negli ultimi mesi – di deflussi di capitali esteri dai Treasury Bond. Sulla prima finalità, i fatti gli stanno dando ragione e non torto. I 90 accordi bilaterali annunciati da Trump entro inizio luglio non ci sono stati: è stata firmata un’intesa bilaterale tra Usa e Regno Unito e due accordi quadro con Vietnam e Indonesia, paesi che non hanno adottato dazi vendicativi ma hanno accettato le richieste americane, e infine un accordo temporaneo con la Cina, che invece aveva adottato l’embargo totale sulle terre rare necessarie ai magneti industriali spingendo Washington a più miti consigli, per evitare il blocco di interi settori della propria industria. L’accordo cinese ha fatto ancora una volta pensare all’Europa che si potesse contare su un’intesa basata al massimo sui dazi americani del 10 per cento. In realtà Trump non aveva mai fatto riferimento a una cosa simile.
Il secondo fine è stato raggiunto con l’ultimo vertice Nato: i partner dell’Allenza hanno accettato di accrescere la propria spesa militare in maniera molto significativa entro il 2035 (anche se poi tenteranno di aggirare l’impegno ampliandone la tassonomia).
E anche la terza finalità sembra incamminata sulla via sperata da Trump. A inizio luglio, i dazi medi americani sull’intero export da qualunque paese hanno raggiungo l’aliquota del 13,4 per cento secondo la stima di JP Morgan Chase: un bel balzo rispetto al 2,3 per cento di un anno fa, un picco storico dal 1940. E per effetto di tutto questo, la “moneta doganale” sta decollando. A giugno i dazi raccolti dal Tesoro Usa sono stati pari a 27 miliardi di dollari, 21 miliardi più dello stesso mese dell’anno precedente: Di questo passo, l’attesa di 240-270 miliardi di dollari annui in di entrare aggiuntive potrebbe anche risultare realistica.
Ma c’è un ma. Grande come la testardaggine di Trump, e avverso alle sue previsioni. Primo, i calcoli di Trump sono effettuati sulla base che tutti i flussi verso gli Usa resteranno com’erano, semplicemente pagando di più per diminuire il deficit commerciale Usa. Dall’altra parte, le previsioni distopiche europee e italiane sono fondate invece sulla base che i flussi verso gli Usa in larga parte evaporerebbero. Due errori contrapposti. I flussi mondiali cambiano direzione a seconda delle convenienze e degli accordi raggiunti tra paesi che hanno interessi diversi dagli Usa. Nelle nicchie di prodotti ad alta specializzazione, l’elasticità di prezzo per il compratore americano può risultare superiore ai nuovi dazi, e non solo per il settore del lusso o delle supercar, ma per molte componenti industriali a cominciare dalle macchine digitali per la produzione che costituiscono uno dei settori più importanti dell’export italiano oltreoceano. Poiché gli scambi commerciali tra Ue e Usa, con i loro circa 1.680 miliardi di dollari nel 2024, rappresentano quasi un terzo dell’intero interscambio mondiale, il loro ammontare per imprese e occupati europei e italiani può essere considerato perso nel solo caso che non riusciamo a riorientare le nostre quote verso altre aree del mondo con cui estendere al più preso accordi di liberalizzazione del commercio, e se e solo se la domanda americana reagirà respingendo in toto i nostri prodotti diventati più cari.
E’ vero dunque che il Centro studi Confindustria ha elaborato stime per l’impatto crescente rappresentato dai dazi Usa: -17,6 miliardi di export italiano nel caso di dazio del 10 per cento, -22,6 miliardi con tariffa al 15, -27,6 miliardi con dazio al 20, e -37,5 miliardi in caso di tariffa al 30 per cento. Tutte stime che sommano alle aliquote maggiori gli effetti della svalutazione del dollaro del 13,5 per cento da inizio anno. Mentre l’Ice stima l’impatto fino a 140 mila addetti coinvolti nelle 6 mila imprese italiane più colpite. Però diciamo le cose come stanno. Si capisce bene che imprese industriali e imprese agricole si siano impegnate subito nella corsa a chiedere alla politica di mettere in conto compensazioni adeguate a queste eventuali perdite. Ma nella realtà, quand’anche avvenisse – e la storia dice il contrario – la massima perdita stimata con dazi Usa al 30 per cento, stiamo parlando del 6 per cento in tutto dell’export italiano che in questi anni ha continuato a mietere nuovi record superando i 600 miliardi annui.
Va aggiunto inoltre che in questi anni si sono accumulati miglioramenti strutturali del tessuto produttivo italiano che non scompaiono per ordine di Trump. La nostra ascesa sino al quarto posto mondiale come maggiori esportatori di beni è stata dovuta al fatto che nel post 2011 e nel post Covid è continuata la diversificazione della nostra manifattura, che è diventata la maggiore diversificazione di prodotti e settori in Europa, di un terzo superiore all’industria francese e doppia rispetto a quella tedesca. La crescita delle Pmi nelle catene dell’export (oltre 6 ogni 10, mentre considerando medie e grandi a esportare sono 9 su 10) è avvenuta grazie a un tasso d’innovazione di prodotti e sistemi organizzativi secondo solo a quello tedesco e maggiore di quello francese e spagnolo. La bassa intensità di energia e di materie usate a parità di prodotto pone l’industria italiana al vertice virtuoso del ranking europeo. Nel G20 solo Francia e Regno Unito, grazie alle loro centrali nucleari, ci battono per bassa CO2 emessa rispetto a ogni dollaro di prodotto realizzato. E anche dal punto di vista della solidità finanziaria, il sistema manifatturiero italiano ha realizzato grandi miglioramenti, non dovuti alla congiuntura ma strutturali. Il capitale sociale delle manifatturiere italiane, cioè il valore complessivo delle somme e dei beni conferiti dai soci come capitale di rischio per finanziarie gestione e investimenti dell’azienda, nel 2007 era pari solo al 34,5 per cento rispetto al 42,2 di quelle francesi e al 55,8 di quelle tedesche. Mal dal 2007 a due anni il gap è stato azzerato, il capitale sociale proprio ha raggiunto il 47,3 per cento rispetto al 43,7 delle francesi e al 48,1 per cento a cui sono scese le imprese industriali tedesche. Sul totale dei crediti bancari in termini di pil, le manifatturiere italiane pesavano per quasi il 54 per cento nel 2011 quindi erano molto indebitate, ma nel 2024 la percentuale è scesa al 27,3 per cento, cioè si è abbattuta della metà, a conferma che il rafforzamento patrimoniale del sistema ha consentito un grandissimo miglioramento della capacità di crescere attraverso mezzi propri e con proprie emissioni di bond e minibond, e non indebitandosi col sistema bancario.
Tutti questi – e molti altri – elementi concreti – indicano la strada da percorrere, anche di fronte alle peggiori sorprese da parte di Trump.
Primo, bisogna smettere di credere che Trump scenda a miti consigli, la sua narrazione è coerente a picchi pendolari ricorrenti nella storia americana sin dai tempi della controversia su dazi e mercati aperti che divise Jefferson da Hamilton. In tutto l’Ottocento e fino allo sciagurato Smoot-Hawley Tariff Acty del 1930, gli Stati Uniti non hanno fatto che alternare dazi e autarchia rispetto ad apertura al libero commercio. Non a caso, le Hawaii divennero prima dominio e poi stato degli Usa grazie a durissime minacce sui dazi. Per capire quanto globale sia la portata del cambio americano che continuerà finché Trump è alla Casa Bianca, consiglio la lettura del bel libro scritto da Albero Saravalle e Carlo Stagnaro che si intitola Capitalismo di guerra. Perché viviamo già dentro un conflitto globale permanente (e come uscirne). Troverete lì illustrate con chiarezza le soluzioni più adeguate per l’Europa e per l’Italia. Siamo un continente trasformatore, ergo nostro interesse è la via liberale di moltiplicare l’apertura ai mercati dei nostri prodotti, l’esatto opposto di sovranismo, autarchismo, protezionismo, dazismo, che vibrano minacciosi nell’attuale scenario di contrapposizioni frontali tra una parte e l’altra dell’Occidente e contro il resto del mondo.
Secondo, l’ho già scritto su queste colonne ma lo ripeto. O l’Europa si muove di conseguenza abbattendo di corsa tutti gli errori compiuti su Green Deal e iper regolamentazione, oppure il danno che ci faremo da soli sarà maggiore di quello dei dazi di Trump. Precipitiamoci a votare sì al Mercosur e a intese commerciali con paesi Asean, Australia, Taiwan, Corea del Sud e paesi arabi.
Terzo: anche il governo italiano deve svegliarsi. Le polemiche di politica interna su Meloni che voleva essere amica di Trump valgono zero. E le richieste dell’opposizione di dazi vendicativi sono autolesionistiche. Non bisogna aspettare la prossima legge di Bilancio. Servono subito una revisione energica degli errori commessi seppellendo Industria 4.0, un fisco per la crescita con un vera Ires premiale e reintegro dell’Ace, massicce semplificazioni amministrative che non possono aspettare. La vera risposta a Trump è questa. Non le lagne.