Il creazionismo giudiziario è come il colesterolo: c’è quello buono e quello cattivo

Per far tornare la magistratura nei ranghi, si devono sospingere le corti a essere più trasparenti, pretendendo che le sentenze pesantemente creative si fondino su di una motivazione particolarmente esaustiva

E’ il terreno di gioco che va cambiato. Il competence creep della magistratura, cioè l’acquisizione progressiva di potere mediante erosione a proprio favore di spazi sottratti al Parlamento o al governo, non può essere contrastato confidando nell’autolimitazione. Così come è inutile lamentarsi genericamente del creazionismo giurisdizionale, che applica norme inventate. La questione c’è, ed anzi è poco più che bimillenaria. In tutti gli ordinamenti. Dalle parti di Trump, per esempio, la Corte suprema in più occasioni ha funzionato come vera e propria opposizione giudiziaria, come contropotere politico. E’ storia risaputa, in somma. Non è facile rimettere “ogni cosa al suo posto”, come dice Massimo Luciani – autorevole giurista e ora giudice costituzionale in quota Pd – nel suo ultimo libro. Qualche punto fermo possiamo però metterlo.

Anzitutto, si dovrebbe smetterla con quella litania dolente e infeconda che accusa genericamente il potere togato di voler fare il legislatore senza avere alcuna rappresentatività democratica. Messa così, la risposta che ci viene dal giudiziario è tanto semplice quanto vincente: le norme di legge non riusciranno mai a fornire la regola per decidere ogni singolo caso, per cui qualunque giudice, qualunque sentenza, dovrà riempire gli spazi bianchi (le “lacune”) che ne derivano. Scacco matto.

La partita sta altrove. Il fenomeno del “legiferare dallo scranno” durerà quanto la civiltà umana, sia chiaro. Si tratta allora di rendere più difficili le esondazioni magistratuali, di ridurne al massimo la portata.

I modelli utilizzati per queste tracimazioni sono noti. Vediamone alcuni. I giudici più attivisti cercano spesso di “nascondersi” dietro masse normative poco chiare (come il diritto dell’Unione europea nel caso “albanese” dei migranti) per presentare le loro sentenze come atti di stretta applicazione della legge: come se si trattasse, cioè, di una deduzione obbligata e inevitabile, dove in realtà sarebbero state possibili altre interpretazioni, molto meno dirompenti. Oppure sfruttano il “silenzio”, cioè gli spazi dell’ordinamento non coperti da regole giuridiche, per creare regole funzionali a determinati obiettivi “politici” (così sembra nel caso Loro Piana). O, ancora, considerano la norma di legge, se sgradita nei suoi contenuti, alla stregua di un avversario, un’entità resistente da debellare con tutti i mezzi: mediante forzature interpretative, disapplicazioni, etc.

Il creazionismo giudiziario è un po’ come il colesterolo. Necessario e inevitabile. L’ecosistema istituzionale non può farne a meno. Ma c’è quello “buono” e quello “cattivo”. E’ quindi inutile, anzi dannoso, dolersene senza fare distinzioni: si offre al potere togato la possibilità di difenderne la versione intollerabile occultandola dietro il paravento di quella indispensabile.

L’azione di contrasto deve essere invece mirata, calibrandola soltanto sulla prima, quella deteriore. Più di vent’anni fa si tentò – in modo piuttosto grossolano – di fermare questi eccessi prevedendo per legge la responsabilità disciplinare del magistrato che interpreti le norme in modo creativo o “palesemente e inequivocabilmente contrario alla lettera e alla volontà della legge”.

La strada giusta è solo politica. Per farle tornare nei ranghi, si devono sospingere le corti a essere più trasparenti, pretendendo che le sentenze pesantemente creative si fondino su di una motivazione particolarmente esaustiva: che dia piena contezza del percorso logico-giuridico seguito, con le conseguenti critiche – anche particolarmente dure – da parte della politica e dell’opinione pubblica.

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