Disporremo di così tanto tempo libero da non sapere più che farcene

Proprio perché “prodotto” dell’uomo, nemmeno la tecnologia digitale più avanzata e più emancipata dal controllo e dal lavoro umani può permettersi di perdere di vista la sua “decenza”, ovvero, come dice Benedetto XVI, il suo legame costitutivo con la “dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna”

Nel discorso in occasione del primo maggio 2000, san Giovanni Paolo II lanciava il celebre appello per “una coalizione mondiale per un lavoro decente”. Nella Caritas in Veritate Benedetto XVI riprende questo appello, precisando che un lavoro decente è anzitutto “un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna”, aggiungendo una serie di corollari esplicativi: “Un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che in questo modo permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa”.

Da queste parole si evince facilmente come in materia di lavoro il magistero della chiesa abbia posto l’asticella molto in alto. Il lavoro non è soltanto produzione di ricchezza, beni materiali o immateriali, cosa peraltro da non sottovalutare, ma è soprattutto una delle espressioni più significative della capacità umana di dar forma al mondo che ci circonda e al nostro stesso essere uomini.

A tal proposito trovo di cruciale importanza la distinzione tra il lato oggettivo e il lato soggettivo del lavoro, diciamo pure, tra i prodotti e l’umana attività di produzione, che ritroviamo nella Laborem exercens di san Giovanni Paolo II. Il nostro tempo sembra non averne più consapevolezza, ma, come direbbe Marx nei sui Manoscritti parigini del 1844 (che certamente San Giovanni Paolo II aveva ben presenti), “l’uomo mette nell’oggetto la propria vita”; grazie al lavoro, “entra in rapporto con altri uomini”, costruisce cioè relazioni sociali significative con se stesso e con gli altri; di conseguenza nel lavoro e nei prodotti del lavoro c’è l’umanità stessa di chi produce, non si tratta della semplice produzione di “oggetti” indifferenti. E questo vale anche nel mondo delle macchine, dei robot e dell’intelligenza artificiale. Finché saranno “prodotti” dell’uomo, l’uomo manifesterà in essi i limiti e la magnificenza della sua natura; sarà liberato da tanti lavori, ma non dal lavoro; dovrà vigilare affinché l’attività del lavoro non entri in contrasto con la qualità della vita umana; lavorare molto su se stesso per essere capace di dare senso al lavoro sempre più autonomo delle macchine, senza diventarne un semplice ingranaggio, ed evitare in questo modo la distopia di un mondo dove semplicemente le cose si fanno da sole.

Sto parlando del mondo dell’intelligenza artificiale, la quale non esprime un semplice progresso della tecnologia tradizionale ma una sua radicale metamorfosi, un artificio che produce altri artifici, il cui senso umano sembra farsi addirittura imperscrutabile, nonostante che rappresenti ciò che andrebbe massimamente coltivato. La fattibilità tecnica di qualcosa non è condizione necessaria e sufficiente perché qualcosa venga tecnicamente realizzato. Ci sono limiti naturali e morali, nonché un senso di giustizia che vanno sempre tenuti in considerazione. Detto in estrema sintesi, proprio perché “prodotto” dell’uomo, nemmeno la tecnologia digitale più avanzata e più emancipata dal controllo e dal lavoro umani può permettersi di perdere di vista la sua “decenza”, ovvero, come dice Benedetto XVI, il suo legame costitutivo con la “dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna”. In fondo sempre di lavoro si tratta; un lavoro progettato e realizzato da macchine che presuppone comunque il lavoro di chi quelle macchine ha inventato, inserendole in un orizzonte all’interno del quale il loro funzionamento non sarà mai la semplice attualizzazione di un significato meramente strumentale. Un orizzonte di festa, si potrebbe dire, o se si vuole, di otium, la vera condizione che rende possibile uno sguardo umano sul lavoro.

Se è vero che la festa è un giorno di pienezza e la domenica “il signore dei giorni”, ne consegue che è alla luce della festa che dobbiamo guardare i giorni feriali e quindi anche il lavoro e tutto ciò che di strabiliante abbiamo costruito. Ma l’epoca moderna ha svilito la festa a semplice tempo di “riposo” dal lavoro. La festa è sempre meno un “tempo pieno” e sempre più un “tempo libero” da ammazzare in qualche modo. Anziché pensare la festa come un tempo capace di dare senso anche al tempo feriale, in modo che il lavoro, pur nella sua durezza, sia espressione anche della grandezza umana, abbiamo abbracciato la folle prospettiva di un lavoro vissuto come un penoso non senso, in attesa delle distrazioni domenicali, quasi che la nostra vera vita e il tempo veramente nostro incomincino soltanto dopo che abbiamo finito di lavorare. In questo modo, però, senza rendercene conto, non soltanto abbandoniamo all’insensatezza la maggior parte del tempo della nostra vita, ma trascuriamo anche il fatto che quel tempo insensato sta colonizzando l’intero universo di ciò che siamo. Anziché pensare a un lavoro “decente”, che alla fine non è altro che un modo di coltivare noi stessi e il mondo che ci circonda, preferiamo sognare che, grazie alle macchine, non ci sarà più bisogno di lavorare. Le macchine intelligenti ci solleveranno persino dai lavori intellettuali. Disporremo così di una gran quantità di tempo libero, ma non sapremo più che farcene.

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