A Teheran tutto sa di “jasus”, spia. I sospetti su due talpe grosse

Nelle chat di Telegram, la rabbia degli ambienti pro regime si sta riversando contro il corpo delle Guardie rivoluzionarie e in particolare contro Esmail Qaani e Ali Shamkhani

Chi sono i traditori? E’ questa la domanda che tormenta i sonni dell’establishment iraniano, perché nonostante i processi sommari, gli arresti e le esecuzioni capitali nessuno si sente al sicuro. “Jasus”, ossia spia, è la parola più evocata in questi giorni a Teheran, risuona nelle stanze che contano, campeggia nei titoli dei quotidiani, anima i dibattiti al curaro che infiammano i social network; spie, spie e ancora spie, perché la sensazione è che la caccia agli infedeli, a oggi, abbia neutralizzato solo minacce generiche alla stabilità del sistema, giornalisti non allineati, attivisti e dissidenti, minacce che poco hanno a che vedere con la guerra dei dodici giorni e con la mattanza degli scienziati e dei comandanti pasdaran. I “jasus”, insomma, sono ancora là fuori. E così, nei palazzi del potere, per difendersi, c’è chi gioca d’anticipo, come l’ex ministro degli Esteri Javad Zarif, che in quanto “riformista”, “pragmatico” o “moderato”, l’etichetta varia a seconda della decade, è un bersaglio ideale per i falchi ossessionati dal sospetto della corruzione occidentale. (“Dava del tu a John Kerry!”, rimarcava un paio di giorni fa un commentatore conservatore). “Quando parliamo di infiltrazione, non dobbiamo focalizzare l’attenzione su coloro che sono diversi da noi – ha messo le mani avanti Zarif – Invece dovremmo chiederci: chi fa eco alla narrativa di Israele? Chi cerca di dividerci?

Che i traditori non siano diversi, che siano anzi perfettamente mimetizzati tra gli insider, è opinione largamente diffusa. “Chi ha accesso ai segreti?”, ha tuonato l’ultra-conservatore Seyyed Reza Akrami, in un’intervista al quotidiano Arman-e-Melli. “Erano i rifugiati afghani ad avere sottomano i documenti riservati dell’intelligence? Assolutamente no. Erano loro a prendere le decisioni? Neppure. Quello che dobbiamo fare adesso è identificare chi al massimo livello della dirigenza è realmente votato al progresso e chi, invece, ha scelto di far prevalere gli interessi personali a discapito di quelli nazionali”.

Nelle chat di Telegram, la rabbia degli ambienti pro regime si sta riversando contro il corpo delle Guardie rivoluzionarie e in particolare contro due sopravvissuti eccellenti, due pesi massimi fino ad un mese fa ritenuti intoccabili: Esmail Qaani e Ali Shamkhani. Entrambi ritenuti morti negli attacchi israeliani del 13 giugno, Qaani e Shamkhani sono ricomparsi in pubblico a sorpresa, in maniera diversa ma altrettanto teatrale, il primo a Teheran, dentro a una piazza, in mezzo alla folla, non annunciato, sotto a un cappellino con la visiera, durante una manifestazione “per la vittoria”, e il secondo, in televisione, protagonista di un’intervista a cuore aperto in cui ha raccontato gli attimi fatali che potevano condurlo al creatore e il salvataggio che lo ha risparmiato, il tutto avvicinando la bocca ogni due minuti a un dispositivo per l’ossigeno.

Possibile che siano loro le talpe del Mossad, dei rivoluzionari della prima ora, dei veterani della guerra Iran-Iraq? Proprio loro, Qaani, capo di al Quds, erede di Qassem Suleimani e Shamkhani, consigliere di Ali Khamenei, già al al vertice del fondamentale consiglio supremo per la sicurezza nazionale? Quale che sia la verità, i due sono già bersaglio di meme che li vedono indossare la kippah e incartare telefoni con su scritto made in Israel. Al netto del clima paranoico che si respira a Teheran, la circostanza che personalità così centrali siano finite così velocemente nel mirino è in parte dovuto agli insuccessi che hanno seminato sul campo e in parte motivato dal fatto che entrambi sono muniti di caratteristiche che li rendono improvvisamente sospetti. I due, va sottolineato, non potrebbero essere più diversi. Qaani è spesso descritto come un grigio burocrate, incapace di uscire dall’ombra del carismatico Suleimani, tanto amato da essere ribattezzato “Supermani”. Qaani, al contrario, non si è mai guadagnato un soprannome, Suleimani si commuoveva, Suleimani baciava i bambini, lui è freddo e inaccessibile, Qaani chissà cosa pensa, dicono le seconde e le terze linee, tacciandolo di aver dissipato insieme ai proxy anche l’anima dei pasdaran. Shamkhani è tutto il contrario, un camaleonte con il sorriso stampato, capace di farsi dialogante oppure dogmatico a seconda della convenienza politica. Uno stratega sì, ma pure un uomo dall’ambizione evidente, con troppi scheletri nell’armadio e nemici che non vedono l’ora di presentargli il conto.

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