La sottocultura manettara riguarda ormai anche i destinatari degli schiavettoni. Le vere responsabilità di Sala e una procura che vuole mettere le mani su un futuro che tocca alla classe politica decidere
Ma vi pare che se mettono sotto inchiesta un tizio dell’amministrazione il sindaco ritira il suo consenso a una legge “Salva Milano”, già votata da tutti al Senato, che aveva appunto lo scopo di salvare dalle grinfie della magistratura lo sviluppo della città, un caso virtuoso di grandi investimenti e traino industriale? Ma vi pare che, lette le fragili e moralistiche cartuccelle incriminanti con cui si chiedono le manette allo sviluppo stesso per un gioco di consulenze e pressioni e lobbismo quintessenziale in ogni tipo di slancio produttivo e finanziario, il sindaco dice che “non si riconosce nella lettura fatta dalla procura” e che non ha “il telefono del presidente della Commissione paesaggio del Comune”? Non è solo questione di vigliaccheria, e ce n’è stata in abbondanza in tutta la triste vicenda di Mani Pulite e del trionfo italiano del populismo penale, è in evidenza una sottocultura manettara che ormai riguarda anche i destinatari degli schiavettoni. Avrebbero dovuto subito dire, Sala e i suoi, che la procura vuole mettere le mani su una gigantesca impresa di capitali, di sfruttamento di aree industriali dismesse, di costruzione e ideazione, con i grattacieli e tutto il resto, di un futuro che tocca alla classe politica e amministrativa decidere, che si fa con grandi architetti, grandi idee, grandi capitali internazionali, mettendosi in fila con Monaco, con Londra, con Parigi e con tutte le altre città europee in cui è inimmaginabile che una casta togata possa sostituire al governo del territorio i suoi criteri pusilli e piccini di legalità, laddove nelle carte non si vede il tesoro della corruzione ma si vede benissimo il chiacchiericcio del patto corruttivo, il bollo di quella che i procuratori chiamano “eversione” su una storica ansia di primato, di movimento, di ricchezza e di produttività che dovrebbe rendere fiero di quanto è stato fatto il paese e la città che ne sono protagonisti, altro che eversione.
Non si pretende che gli amministratori di una grande città e la loro classe politica di riferimento, qui il centrosinistra, altrove come a Genova il centrodestra, facciano come il piccolo giornale che avete tra le mani, quando un gruppo di solerti e prestigiosi magistrati si mise in testa che Roma era in preda alla mafia, dico la mafia, e usò le regole della lotta alla mafia, comode per un’inchiesta sulla corruzione di tutt’altro genere, allo scopo per noi chiaro di approntare una indebita e pericolosa messinscena.
La mafia sarebbe stata “er Cecato”, i cravattari della pompa di benzina Roma Nord, il cooperatore Buzzi per gli appalti sulla raccolta delle foglie in autunno e l’affissione di manifesti, qualche bustarellaro come ce ne sono nei gabinetti degli assessori e nelle giunte. Balle, dicemmo e scrivemmo subito, censurando con severità giornalistica desueta nel nostro sistema mediatico un’indagine benintenzionata, ci mancherebbe, ma partita con l’annuncio degli arresti spettacolari di quattro marrazzoni durante una riunione di partito. Un’indagine che ha fatto il poco di pulizia che era necessaria, alla fine, ma ha regolarmente perso per strada, nei processi, quell’impronta da Hollywood sul Tevere, da Padrino de noantri, che gli si voleva dare. Da quando il ceto dei partiti, poi abrogato, e a questo punto si deve dire giustamente abrogato, tolse l’immunità parlamentare dalla Costituzione più bella del mondo (Bella ma, come direbbe Violante) e criminalizzò un galantuomo come Conso con la teoria belluina del colpo di spugna, da allora emerse questa componente di codardia e di codapaglismo che disonora il sistema rotto e strarotto della politica e dell’amministrazione come primato delle scelte di sviluppo sulle ubbie moralistiche della casta togata.
Invece di saltare sul carro che a un certo punto rischierà di travolgere anche loro, sferragliando tra elementi di accusa piccini picciò e minacciando i loro sindaci e presidenti, Meloni e la destra dovrebbero cogliere l’occasione per mettere l’interesse di Milano e della “nazione” davanti a quello di una campagnuccia post Mani Pulite che probabilmente si risolverà in un nulla di fatto, ma intanto comporterà il blocco di un progetto di sviluppo che da subito eccita nella denuncia spicciola sociologi, urbanisti, e giornalisti la cui professione è la caccia al luogo comune risanatore. Chi governa deve preoccuparsi se la città che in questi vent’anni è cambiata di più, ha fatto di più, ha realizzato opere di valorizzazione e attirato miliardi e miliardi di investimenti, conquistando e scalando le classifiche di sviluppo e diffondendo idee, tecnologie, modi di muovere i capitali internazionali a beneficio della comunità, viene risucchiata nella retorica della Milano da ribere, che palle, degli aperitivi, delle rendite, dell’espulsione della classe media, degli affitti troppo alti, degli studenti attendati nei cortili delle università, degli infermieri e tranvieri che non possono alloggiare in corso Italia, e altre bellurie sulla diseguaglianza come portato maligno della produzione di ricchezza. Sicuramente ci son cose che nel modello Milano non vanno, esigono di essere corrette, e situazioni di conflitto di interessi che segnalano malcostume, ma queste correzioni devono essere parte di un progetto amministrativo e politico fatto in nome del popolo elettore che ha votato il sindaco e la giunta, e di un ruolo sorvegliato e rigoroso della magistratura nei casi necessari, non da chi considera “eversivo” il modello di sviluppo della città e, invece di limitarsi a segnalare con indagini misurate situazioni incongrue o sospette, pretende di mettere in gattabuia quelli che quel modello hanno guidato, l’assessore all’Urbanistica e il costruttore più forte e gagliardo d’Europa.