Come vedono il dialogo con la Siria Israele e Stati Uniti

Le possibilità di accordo non sono finite, ma gli israeliani non si fidano di al Sharaa e non c’entra soltanto il passato jihadista. L’incapacità di controllare il caos e la pressione di Trump

Quando il presidente americano, Donald Trump, incontrò Ahmad al Sharaa, l’autoproclamato presidente della Siria, comandante del gruppo islamista Hayat Tahrir al Sham, propulsore della marcia di successo per cacciare il dittatore Bashar el Assad e rovesciare il suo potere, esclamò: “E’ un tipo tosto, dal passato molto forte”. La stretta di mano è stata storica, inimmaginabile fino a poco tempo fa: su al Sharaa pendeva una taglia di dieci milioni di dollari ed erano stati gli americani a metterla. Ma a dicembre la taglia venne revocata e quando Trump incontrò al Sharaa in Arabia Saudita si era presentato con delle forti aspettative, già convinto di voler fare entrare la Siria nel progetto degli Accordi di Abramo. Al Sharaa in occasione dell’incontro sfoderò tutta la sua sapienza diplomatica, non deluse le aspettative del presidente e tutto si concluse con una foto che aveva dell’incredibile: ritti davanti alle bandiere dei rispettivi paesi, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, Trump e al Sharaa. I primi due con il sorriso raggiante, al Sharaa appena accennato. Trump crede nel progetto di normalizzazione tra Siria e Israele, anche per Israele sarebbe importante e infatti, con canali segreti, si è messo al lavoro con il governo siriano. Gli attacchi degli ultimi giorni “non hanno rotto questo progetto, sicuramente lo hanno rallentato”, dice Nir Boms, esperto di Siria del Moshe Dayan Center dell’Università di Tel Aviv. Boms si è occupato di progetti di dialogo con la Siria, conosce il paese, i suoi abitanti, ritiene che la costruzione di accordi non sia finita, è più complessa, ma c’è margine per lavorare, e racconta che non sono pochi i siriani che credono in al Sharaa, nonostante tutto. Dopo gli attacchi a Suwayda e poi a Damasco, gli Stati Uniti hanno cercato subito di agevolare il cessate il fuoco. Sembra esserci sempre un punto in cui le strade di Israele e Stati Uniti si dividono: “In teoria, non c’è molta differenza tra la teoria e la pratica. In pratica, la differenza è sempre molta”, così Boms riassume il divario tra Israele e Stati Uniti che vogliono la stessa cosa – una Siria affidabile – ma per arrivarci vedono strade diverse. La normalizzazione può essere solo graduale, Israele crede che sia possibile ma laboriosa, ha però ricevuto diversi segnali: il massacro degli alawiti e le violenze contro i drusi, prima a Jaramana poi a Suwayda. Israele non si fida di al Sharaa quanto gli americani, anzi non si fida affatto e prima di procedere con qualsiasi accordo vuole delle garanzie di sicurezza e ha messo in chiaro le sue richieste: non vuole movimenti armati, le milizie portano caos, armi e droga e Israele non vuole nessuno di questi pericoli a ridosso del confine. E’ sospettoso, non crede che al Sharaa sarà in grado di cambiare la pelle dei gruppi armati. La questione del rispetto delle minoranze e delle donne è invece concettuale: “Non c’entra soltanto il fatto che Israele ha una comunità drusa importante. Come vengono trattate le minoranze dà il segnale su qual è lo stato di avanzamento di un paese che si dice votato alla moderazione. Se donne e minoranze non sono rispettate, la promessa di moderazione è nulla”. Poco importa il passato jihadista di al Sharaa, che conta, ma in questo momento per gli israeliani è più importante che riesca a mantenere il paese, che elimini il caos e che disarmi le milizie. Non stanno arrivando questi segnali: “Non sono sicuro che Israele abbia reagito nel modo giusto, per me è difficile giustificare gli attacchi a Damasco, ma razionalmente ne vedo il senso: Israele ha visto avvicinarsi qualcosa di grosso, voleva creare uno choc per prevenirlo”. La speranza per una serie di accordi con la Siria esiste ancora in Israele, questo lascia spazio per il dialogo: l’eliminazione di una minaccia al confine sarebbe un risultato molto importante per la sicurezza. Israele però non è pronto a dare ad al Sharaa tutto il credito di cui dispone da parte degli americani, teme il collasso, la mancanza di controllo sui radicali che ancora sono capaci di dettare l’agenda e agisce per mettere in sicurezza i suoi confini qualsiasi cosa accada. Gli Stati Uniti non hanno questa esigenza, pensano soltanto a preservare l’uomo che ha distrutto il potere di Assad e che ha un ottimo rapporto con i sauditi. “Al Sharaa ha una sua visione della Siria e sa che per avere il controllo deve evitare il caos, le divisioni settarie. Non ci sono prove che abbia ordinato un’operazione per andare ad ammazzare i drusi. Credo ci sia stata una catena di eventi che ha fatto perdere il controllo, ed è grave. Anche i drusi non aiutano diplomaticamente, questo ovviamente non giustifica quanto accaduto a Suwayda”.


Al Sharaa sta venendo meno alle sue promesse, non controlla i gruppi armati, non sa agire per unificare il paese e proteggere tutti i suoi cittadini, per ora però gode ancora di molto sostegno da parte degli Stati Uniti: “Ha ricevuto una buona linea di credito, se non cambia però si esaurirà. C’è ancora spazio per lavorare”, dice Boms che in una nuova Siria crede con forza.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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