L’orrore della repubblica dei pm

Vogliono stravolgere il diritto del lavoro, definire le politiche migratorie, indirizzare le scelte industriali e decidere quali riforme fare e quali no. Oltre il caso Loro Piana. Appello contro i pieni poteri che tengono l’Italia in ostaggio

L’incredibile vicenda giudiziaria che ha coinvolto due giorni fa una delle aziende di moda più famose del mondo, Loro Piana, azienda che secondo la procura di Milano “non avrebbe messo in atto misure idonee alla verifica delle reali condizioni lavorative nelle aziende appaltatrici”, rappresenta una finestra perfetta attraverso la quale provare a mettere il naso all’interno di un mondo che l’opinione pubblica spesso si rifiuta di vedere. Il mondo in questione è quello delle esondazioni giudiziarie e la vicenda milanese è solo la punta di un iceberg molto più grande all’interno del quale è ben visibile un fenomeno culturale finalizzato a creare due carriere praticamente sovrapposte: il magistrato che, sentendosi investito di pieni poteri, non si limita a individuare i reati da perseguire ma sceglie anche di avere una funzione pedagogica, educativa, a volte persino politica. Il caso di Loro Piana, come molti altri casi che hanno visto recentemente protagonisti gli uffici della procura di Milano, è un caso limite perché trasferisce alle imprese che stipulano contratti di appalto gli eventuali reati commessi dalle società a cui si sono affidate.

Nessuno si scandalizza, né a Milano né nel resto d’Italia, perché per la destra la procura di Milano è divenuta la testa d’ariete con cui provare a scardinare il potere della sinistra nella capitale finanziaria italiana (vedi le inchieste sull’urbanistica) e perché per la sinistra vedere una procura impegnata formalmente per difendere i diritti dei lavoratori contro le crudeltà di una multinazionale rappresenta un copione difficile da poter contestare. Eppure sarebbe sufficiente masticare un po’ di diritto per rendersi conto che le inchieste milanesi presentano diversi elementi critici, per non dire surreali. In primo luogo, sostenere che un grande distributore debba controllare non solo la catena dei fornitori ma anche quella dei subfornitori rappresenta una negazione di un principio cardine dello stato di diritto, secondo cui la responsabilità è sempre individuale. In secondo luogo, sostenere che la responsabilità legale di un’impresa sia anche quella di verificare fino all’ultimo il modo in cui lavorano i subfornitori è un modo come un altro per accettare il fatto che lo stato abbia scelto, a causa della sua inefficienza, di abdicare al suo ruolo di controllo, trasferendo la gestione della lotta contro l’illegalità alle grandi corporation.


In terzo luogo, e qui la punta dell’iceberg dovrebbe essere ben visibile a tutti, accettare come se nulla fosse che una procura possa definire in modo discrezionale quale sia il dovere etico di un’azienda, riscrivendo in modo soggettivo il diritto al lavoro, è un tassello ulteriore che ci permette di mettere in luce un mosaico degli orrori all’interno del quale è possibile apprezzare un disegno con cui l’Italia da troppi anni deve fare drammaticamente i conti: le esondazioni delle procure.

Il caso di Milano è solo l’ultimo di una lunga serie all’interno della quale si trovano esondazioni di ogni genere. Vi sono procure che pretendono di definire quali siano i confini con cui un governo possa utilizzare il segreto di stato, come è stato il caso Almasri, con le indagini a carico di mezzo governo che la procura di Roma ha avallato, trasferendole con disinvoltura senza uno straccio di prova e di logica al Tribunale dei ministri. Vi sono procure che pretendono di definire quali siano i confini con cui un governo possa muovere le leve della politica industriale, come è d’altronde da molti anni il caso dell’Ilva, i cui altiforni sono ormai gestiti più con le logiche giudiziarie della procura di Taranto che con le logiche industriali del governo italiano. Vi sono tribunali che pretendono di definire quali siano i confini con cui un governo possa muovere le leve delle politiche migratorie, come è il tribunale di Roma. Vi sono procure, come quella di Milano, che pretendono di definire in modo discrezionale e ideologico quali siano le strategie aziendali che possono portare avanti le multinazionali legate all’energia (caso Eni-Nigeria). E poi ancora. Ci sono procure (come quella di Torino) che provano a definire in modo discrezionale quali sono le responsabilità che ha la politica sul tema dell’inquinamento ambientale. Ci sono procure (come quella di Torino, ancora) che provano a definire in modo discrezionale quali siano i perimetri corretti da utilizzare quando si parla di garanzie dei parlamentari (il caso Esposito). Ci sono procure (come è stata a lungo quella di Palermo) che pretendono di giudicare eticamente più che legalmente il modo in cui lo stato combatte la mafia (la famigerata Trattativa). Ci sono magistrati (come quelli del Tar del Lazio) che scelgono in modo discrezionale di riscrivere la tempistica e le modalità del reclutamento scolastico (vedi il caso dei concorsi alla fine del 2024).

Per non parlare poi dei sindacati dei magistrati che si sentono in dovere di triangolare con le correnti della magistratura per opporsi con tutti i mezzi possibili a ogni tentativo della politica di superare lo status quo. Le esondazioni delle procure, dei tribunali, dei magistrati amministrativi sono spesso qui, sono di fronte a noi, sono di fronte ai nostri occhi e indicano una ferita di cui l’Italia spesso non si vuole curare: la presenza di una magistratura dotata di pieni poteri che facendo leva sul diritto alla discrezionalità assoluta che la politica le ha concesso non si limita a combattere ogni tentativo di superare lo status quo, come la separazione delle carriere, ma cerca in tutti i modi di unificare le carriere, togliendo al potere legislativo e a quello esecutivo il diritto di governare e di legiferare e attribuendo al potere giudiziario il diritto di svolgere il ruolo di supplente laddove la politica ha scelto o è stata costretta ad arretrare. Vedere un magistrato che si improvvisa conduttore televisivo può far sorridere. Vedere un magistrato che si trasforma in scrittore può far riflettere. Vedere un magistrato che sceglie di trasferire su se stesso il potere legislativo e quello esecutivo dovrebbe produrre, nelle coscienze anti populiste italiane, un’ondata di rigetto che purtroppo semplicemente non c’è. E la storia di Loro Piana, e delle esondazioni della procura di Milano, è eclatante non solo per la storia in sé ma per quello che rappresenta, e per quell’iceberg carico di tossine che l’opinione pubblica italiana ha scelto di considerare non come un vizio ma come una virtù del nostro paese.

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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