Il modello Milano è in crisi, viva il modello Milano

Nella metamorfosi da capitale industriale a smart city europea la città ha subito una crisi da successo. Ora è il momento di un “tagliando” necessario per non perdere la bussola della trasformazione

Il modello Milano è in crisi, viva il modello Milano. Cominciamo subito così, parafrasando il famoso detto inglese simbolo di continuità e cambiamento nello stesso tempo. Ma cos’è questo modello Milano? E’ una transizione riuscita, un processo lento e complicato di passaggio dalla vecchia società, quella delle aristocrazie della finanza, del capitalismo e dell’industria, ma anche dell’operaio massa e della proletarizzazione. E’ davvero in crisi? Forse, ma è una crisi da successo. Il cammino fuori dal vecchio paradigma è durato quattro decenni e forse più, dalla Milano da bere di metà anni ’80 alla smart city del dopo pandemia. Non è stata l’unica metropoli europea o americana a subire una grande trasformazione a cavallo tra la fine del Novecento e il secondo millennio, ma a Londra, a Parigi, a New York la manifattura era sempre rimasta fuori, nelle banlieu, nei sobborghi, nelle contee limitrofe. A Milano no, l’industria era il cuore e stava nel cuore della città. La Pirelli, l’Alfa Romeo, la Falck, la Breda erano là dove vivevano i milanesi, ma si stavano svuotando. Anche i solenni palazzi di piazza Cordusio erano ormai monumenti alle banche di un tempo come la Commerciale, la Mediobanca o la Cariplo. La “borsa alle grida” dentro Palazzo Mezzanotte veniva rimpiazzata dalle transazioni elettro-digitali alla velocità della luce. E così via. Immensi spazi vuoti da riempire, nuovi modi di lavorare, nuovi soggetti sociali, nuove generazioni, la ricerca di una ragion d’essere chiamata post-industriale, ma che sarebbe meglio definire neo-industriale. Tutto è avvenuto senza soluzione di continuità: pur tra divergenze, conflitti, passi avanti e indietro, errori e omissioni, socialisti, berlusconiani, leghisti, prodiani, ulivisti, piddini, tecnici e via via elencando, hanno contribuito a completare la nuova topografia socio-economica della città. E anche questo è un modello.

Per non dimenticare, ora che si vuol stendere un sudario giudiziario, cerchiamo di ricostruire a sommi capi le tappe a partire da quando avviene la prima grande frattura, cioè quando finisce il miracolo economico. E’ un amarcord anche personale perché io che non sono milanese ho frequentato e vissuto Milano proprio da quel momento. Gli anni ’80 segnano la prima grande svolta, una sorta di sospiro collettivo dopo gli anni di piombo che hanno insanguinato Milano forse ancor più di Genova, Torino, Roma, a partire da quel 12 dicembre 1969 in cui è esplosa la bomba in piazza Fontana. Puntare sulla moda non è stata una caduta nell’effimero, ma ha recuperato la tradizione tessile della Milano tardottocentesca sotto altre vesti (letteralmente); lo si capirà solo dopo, quando sarà chiaro che l’industria grigiofumo non poteva più tirare avanti. Mentre Mondo Operaio riverniciava a stelle e strisce il liberalsocialismo, Bettino Craxi si prendeva Roma e Paolo Pillitteri, il sindaco cognato, trasformava a colori la bruma ambrosiana. I socialisti hanno capito per primi che era il momento di un salto di paradigma.

“La festa è finita” riconobbe Gianni Agnelli alla fine del decennio, poco dopo crollava la lira e la prima repubblica si estingueva per consunzione interna. Mani pulite le ha dato una energica spinta, ma stava già scendendo lungo la china. Milano visse come un lutto collettivo la fine della “capitale morale”, si svuotavano i ristoranti, si scivolava silenziosi, occhi bassi e musi lunghi, sotto i portici di San Babila ormai orfani dei paninari. La Lega giustizialista agitava i cappi, ma il leghista Marco Formentini, primo sindaco eletto direttamente, primo non socialista a guidare palazzo Marino dal 1945 (anche se aveva lasciato il Psi per Umberto Bossi), mostrò il volto della ragione. Furono quattro anni difficili, e nel 1997 arrivò il ciclone Berlusconi con Gabriele Albertini. Due mandati nei quali la grande trasformazione ha mosso i primi passi, per essere poi lanciata in grande stile su in alto fino alla cima dei grattacieli. Industriale cattolico, Albertini si presentò come “amministratore di condominio”, in realtà sarà lui ad avviare alcuni dei maggiori progetti di ristrutturazione e rilancio della città: la nuova fiera, ad esempio, o la zona Porta Nuova-Varesine dove sorgeranno il Bosco verticale e le tre torri (Unicredit, Diamante e Solaria), più la nuova stazione porta Garibaldi. Uffici, spazi commerciali e culturali, residenza (non solo quella di ultra lusso), opera di archistar (tra le quali Stefano Boeri anche lui oggi indagato). Lo skyline di Milano è rivoluzionato, la città si fa più moderna e più europea, attira non solo affari, ma lavori nuovi come nel digitale o rinnovati come nella finanza. A Letizia Moratti eletta sindaco nel 2006 spetta la preparazione di Expo 2015 che rappresenta in qualche modo il precipitato di tutti i cambiamenti avviati e la sanzione di una metamorfosi più che ventennale. Il modello Milano regge e verrà gestito, per un paradosso solo casuale, da Giuliano Pisapia, gran borghese, avvocato di fama e di vaglia, che aveva attraversato il gauchisme degli anni ’70 per poi approdare a Rifondazione Comunista e infine al Partito democratico. Il suo libro-manifesto uscito proprio nel 2015 s’intitola “Milano città aperta. Una nuova idea politica”. Expo è un successo nato dal centro-destra e completato dal centro-sinistra, anche questo è il modello Milano. Commissario e poi amministratore delegato della grande esposizione è stato Giuseppe Sala eletto sindaco nel 2016 e finito oggi nel mirino. L’assessore all’urbanistica Giancarlo Tancredi minacciato d’arresto è l’uomo che ha seguito tutti i maggiori progetti urbanistici milanese, compresi quelli ancora da realizzare come Sesto San Giovanni o San Siro con l’infinita tiritera dello stadio. E qui arriviamo alla soglia del futuro.

Se non vogliamo usare la parola crisi (che però è rottura e cambiamento nello stesso tempo) dobbiamo ammettere che il modello Milano ha bisogno di un tagliando e di una revisione. Per eccesso di successo perché, complice anche la Brexit, la città attrae come un magnete società finanziarie e imprese high tech, si candida a diventare il secondo polo europeo continentale dopo Parigi, insidiando la stessa Londra. E arrivano gli studenti non solo i bocconiani, ma i politecnici, mentre le eccellenze ospedaliere hanno già trasformato Milano in una capitale della medicina e della sanità in senso più ampio. C’è bisogno di alloggi, di nuove case, c’è bisogno di abbassare la febbre immobiliare e i livelli degli affitti. E non solo. La pandemia non ha rovesciato la città dal centro verso la periferia come molti avevano immaginato, ma ha creato comunque altri bisogni legati anche al nuovo modo di lavorare. La smart city è un progetto (fatto non solo di piste ciclabili), tuttavia è questo il senso del tagliando che nutre in seno un’altra trasformazione. Sempre che non cali di nuovo la nebbia del sospetto.

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