All’indomani del Liberation day, la risposta dei mercati fu violenta. Le rapide marce indietro hanno rasserenato la situazione, ma proprio la successiva normalizzazione sembra ora persuaderlo che può riprendere da dove si era fermato. Facendo ricominciare da capo questo costosissimo giorno della marmotta
Donald Trump dovrebbe riflettere su una battuta spesso attribuita ad Albert Einstein: una possibile definizione di follia è continuare a ripetere le stesse azioni aspettandosi risultati diversi. Ieri, per l’ennesima volta, gli indici di Wall Street hanno lasciato sul terreno lo 0,3-0,4 per cento dopo che il presidente aveva annunciato un ulteriore incremento dei dazi sul Canada, che potrebbero passare dal 25 al 35 per cento. Nel minacciare la stretta, la Casa Bianca ha tuttavia chiarito che – per il momento – le nuove tariffe non si applicheranno ai prodotti coperti dal trattato di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico. Se l’incremento ci sarà oppure no, lo scopriremo il 1 agosto: lo stesso giorno in cui si vedrà l’esito delle trattative con il Giappone, la Corea del sud, il Brasile e tutti gli altri partner commerciali che hanno ricevuto la lettera riguardo l’applicazione dei “dazi reciproci”. Per ora, infatti, il compromesso è stato raggiunto solo in tre casi, peraltro non sempre in modo chiaro o definitivo: il Regno Unito, la Cina e il Vietnam.
La reazione negativa dei mercati, negli Stati Uniti e altrove, si spiega facilmente: l’aumento delle barriere doganali comporta una perdita di efficienza per l’economia globale, in quanto impedisce o comunque complica il naturale processo di specializzazione del lavoro.
I consumatori e le imprese americane finiranno per pagare di più i beni di cui hanno bisogno, e le rispettive produzioni si sposteranno dalle nazioni più produttive ad altre che lo sono meno. Lo stiamo vedendo nel mercato del rame, su cui Trump ha varato un dazio del 50 per cento, anch’esso a decorrere dal mese prossimo: “In quale modo questo possa aiutare l’economia americana resta un mistero – ha commentato il Wall Street Journal – tanto più che il mercato del rame è nel caos più totale, con risultati disastrosi per le industrie americane che utilizzano questo vitale metallo”.
Secondariamente, l’effetto è particolarmente forte quando la furia di Trump si rivolge contro paesi come il Canada che in nessun modo possono essere definiti come nemici degli Stati Uniti: anzi, assieme al Messico, Ottawa è di gran lunga il principale partner commerciale di Washington, con un interscambio che l’anno scorso ha sfiorato gli 800 miliardi di dollari. Questo stretto legame è consolidato nell’accordo di libero scambio che lega i tre paesi nordamericani e che dal 2020 ha sostituito il Nafta, peraltro proprio per volontà di Trump, che fece della sua rinegoziazione uno dei punti cardine del suo primo mandato. Trump continua a puntare il dito sul presunto traffico di fentanyl attraverso il confine settentrionale degli Stati Uniti, nonostante il premier canadese Mark Carney abbia dato garanzie di un controllo più severo e abbia anche accolto la richiesta americana di eliminare l’imposta sui servizi digitali.
Da ultimo, ad agitare i mercati è la volubilità di Trump: se da un lato gli operatori sembrano essersi abituati alle sortite del presidente americano e quindi reagiscono meno nervosamente rispetto ai primi annunci di qualche mese fa, comunque i segnali che egli manda sono difficili da interpretare. E, per quanto possa essere improbabile l’effettiva applicazione dei dazi che minaccia, tale eventualità non è del tutto impossibile e dunque viene scontata nelle scelte di investimento e risparmio.
Il paradosso, insomma, è che Trump sembra non imparare dal passato: all’indomani del Liberation day lo scorso 2 aprile, la risposta delle borse fu violenta, con una rapida perdita di capitalizzazione e l’aumento dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico. I successivi chiarimenti e le rapide marce indietro hanno rasserenato la situazione, facendogli guadagnare il nomignolo di “Taco”, cioè Trump Always Chickens Out, Trump se la fa sempre sotto. Ma proprio la successiva normalizzazione sembra ora persuaderlo che può riprendere da dove si era fermato: facendo ricominciare da capo questo costosissimo giorno della marmotta.
Se c’è una lezione che tutti dovrebbero apprendere è che il protezionismo fa male anche solo a evocarlo: figuriamoci a metterlo in pratica. E’ un insegnamento prezioso per la Casa Bianca, ma anche per gli altri – europei compresi – che sono spesso tentati di rispondere a Trump occhio per occhio e dazio per dazio.