Amarcord estivo tra la Riccione del ventennio e i neon di Miami. Intervista a Renzo Arbore

“Riccione fu il luogo della mia infanzia. La famiglia partiva in treno da Foggia con bauli di masserizie affrontando un viaggio che sembrava per l’America”, dice l’artista pugliese. “L’’invenzione del jazz ha segnato lo stile dei miei programmi, che in fondo sono jam session di parole”

C’era una volta la villeggiatura borghese che cominciava a giugno, terminava a settembre e svuotava le città; c’era il caldo senza bollini rossi; i temporali d’agosto non venivano chiamati “bombe d’acqua” ma acquazzoni; le zie agitavano i ventagli per


alleviare l’afa; il sudore estivo, scontato come il frinire delle cicale, non s’associava agli “allerta meteo” ma ai ghiaccioli al limone.

Renzo Arbore, dal 10 luglio di nuovo in tv con la riedizione restaurata del suo classico “Cari amici vicini e lontani” (ogni giovedì su Rai 3 in seconda serata), ricorda nitidamente quelle stagioni meno nevrotiche, che sprizzavano emozioni in cui ci si può immergere con


nostalgia.

La prima villeggiatura?

Riccione fu il luogo della mia infanzia: mio padre l’aveva scelto un po’ perché mia nonna era bolognese, un po’ perché aveva la spiaggia più accorsata d’Italia. La famiglia partiva in treno da Foggia con bauli di masserizie affrontando un viaggio che sembrava per


l’America: montavamo di sera sull’accelerato, vedevo l’alba a Pescara e nel pomeriggio giungevamo a destinazione per sistemarci nella casa affittata al quartiere Abissinia. Tanti anni dopo, parlando con Romano Mussolini, seppi che era una delle pochissime proprietà della sua famiglia a Riccione.

Che era la spiaggia del duce.


Lo vidi che avrò avuto cinque anni: mio padre mi prese in braccio e indicò un uomo vestito di bianco che salutava la gente davanti alla sua villa. Mi ha fatto impressione, una quindicina d’anni fa, entrare in quella casa per un incontro fra dj. Si ridestò l’apparizione


infantile.

Erano già vacanze di guerra. Cosa ricorda?


Nell’estate ’43 ci spostammo a Francavilla al Mare con tutto il parentado, trentacinque persone, quando l’8 settembre fu annunciato l’armistizio. Sembrava la fine della guerra e mi ritrovai con la tata friulana nella piazzetta dove esultavano tutti, poi ce ne andammo a


Lanciano che sembrava più sicura, ma mio padre rischiò una brutta fine perché fu preso dai tedeschi. Quando lo rilasciarono, tre giorni dopo, sfollammo a Chieti e ci restammo fino all’arrivo degli Alleati.
Vidi i tedeschi che si ritiravano e le jeep americane che entravano dall’altra parte della città, in un tripudio di folla.

Tornaste a Riccione?


Dopo una parentesi pugliese a Siponto riprendemmo le vacanze a Riccione: eravamo gli unici meridionali in una spiaggia invasa dal turismo svizzero. Quale contrasto con Foggia, ancora piena di macerie per i bombardamenti. E che contrasto tra le disinvolte


villeggianti bolognesi e le mie copertissime concittadine. A Riccione c’erano i flipper, i dancing, la scuola d’equitazione, i campi da tennis dove imparai a giocare e la pista di pattinaggio: il mio idolo era Mimma Gaspari, la più brava pattinatrice locale, che sarebbe


diventata produttrice discografica e paroliera
. Con l’adolescenza però avrei cambiato mare: dall’Adriatico al Tirreno. I miei vollero far conoscere ai figli posti nuovi e approdammo in Versilia, a Lido di Camaiore. Giravo in bicicletta tra Viareggio, Marina di Massa, Forte dei Marmi. Avevo una fidanzatina e scoprivo i night club. Sentii per la prima volta il chitarrista olandese Peter Van Wood e il gruppo Franco e i “G.5”, che si favoleggiava fosse prediletto dagli Agnelli. Alloggiavamo all’albergo Cavalluccio Marino e un giorno, al tavolo accanto, venne a mangiare un tizio che pareva uno spaccamontagne declamando progetti ambiziosi. Li avrebbe realizzati: era Sergio Bernardini, l’inventore della Bussola, dove sarebbero passati grandi nomi e dove vidi esibirsi Aretha Franklin.

Poi arrivarono le estati da adulto.


Quando mi stabilii a Napoli per l’università frequentai Ischia, ma soprattutto Sorrento nella villa dell’amico Gerardo Gargiulo. Furono le prime vacanze in barca, a caccia di straniere. Io ero il più timido, mentre il più agguerrito era un giovane avvocato che


telefonava ai portieri d’albergo: “Che c’è oggi?”. “Avvoca’, so’ arrivate venti inglesi e dieci spagnole, ma queste le sconsiglio perché hanno tutte i libretti da messa…”. Con le italiane non ci si provava perché volevano inevitabilmente fidanzarsi.

Si fidanzò?


Con una ragazza che ogni tanto tornava a Napoli dove aveva un amico, tal Luciano De Crescenzo. Quando lo conobbi scoprimmo che era stata contemporaneamente con tutt’e due. Con Luciano il baricentro si sarebbe spostato a Capri, assieme ad Alberigo Crocetta, l’ideatore del Piper. L’isola viveva una fase meravigliosa, tra gli ultimi esistenzialisti e i bizzarri personaggi di cui Totò fece la caricatura. La conoscevo per averci lavorat onell’estate 1962 suonando al Number Two, dirimpetto al Quisisana. Eseguivo un r epertorio cubano, italiano e inglese, ma dovetti tornare a Foggia per la morte di nonno Lorenzo, al quale ero molto legato. A Capri con Luciano avrei fatto tappa fissa: aveva battezzato la barca “’O fatt’apposta” perché gli serviva per rimorchiare. Io stavo con Mariangela Melato e la sera andavamo per taverne ad ascoltare musica.

Estati all’estero?

A Miami Beach quando era ancora quella del Tropical Deco, delle botteghe vintage e si poteva fare il bagno ovunque. Era l’America che mi piaceva, di un Novecento che malgrado tutto è stato un secolo meraviglioso. L’invenzione del jazz ha segnato anche lo


stile dei miei programmi, che in fondo sono jam session di parole. Ma se parliamo di musica c’è pure quella francese degli anni Cinquanta, la brasiliana, soprattutto l’italiana e napoletana. Ora hanno riscoperto i classici partenopei, ma quando non li cantava più


nessuno lo facevo io con l’Orchestra Italiana.

Una canzone emblema dell’estate?


Se devo sceglierne una sola è “Sapore di sale”.

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