Versi che raccontano l’umoralità, la frammentazione, il paesaggio crepuscolare, insieme a dipinti in cui i personaggi sono intrappolati nello spazio della propria attesa. Concetti validi anche per i nostri tempi
La malinconia d’America è tutta nei quadri di Edward Hopper e nelle liriche di Mark Strand. Nato da una famiglia ebrea in Canada ma cresciuto negli Stati Uniti, Strand ha insegnato Letteratura alla Columbia University: nel 1990 è stato nominato Poeta Laureato, mentre nel 1999 ha ricevuto il Premio Pulitzer grazie alla raccolta Blizzard of One. Lo Specchio Mondadori accoglie ora in collana il corposo volume Tutte le poesie (traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan) che raduna testi da Dormire con un occhio aperto (1964) a Quasi invisibile (2012), con due prose fondamentali come L’alfabeto di un poeta e Note sul mestiere della poesia.
Quarantotto anni di scrittura passati tra componimenti coesi, asciutti e altri più ariosi, prosimetri e tocchi di humor nero, surrealismo e semplicità espressiva, onirismo e silenzio. Ci dicono qualcosa degli Stati Uniti odierni? Forse sì. I lacerti in versi di Strand raccontano l’umoralità, la frammentazione, il paesaggio crepuscolare, il desiderio. Ma lo fanno con una compostezza quasi maniacale, dando l’impressione al lettore di essere di fronte a controllatissime ansietà. Abitato dal pensiero della morte come fonte d’ispirazione, Strand è un poeta intimamente postmoderno, al pari dei colleghi americani (e non) della sua generazione: ma in maniera differente. Il realismo isterico, l’alienazione e lo sradicamento agiscono in lui con un senso della forma e dell’astrazione sobrio, moderato.
Vale per lui stesso ciò che disse di Hopper (in Edward Hopper. Un poeta legge un pittore, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, Donzelli 2016): “Nei quadri di Hopper ad accadere sono le cose che hanno a che fare con l’attesa. Le persone di Hopper paiono non avere occupazioni di sorta. Sono come personaggi abbandonati dai loro copioni che ora, intrappolati nello spazio della propria attesa, devono farsi compagnia da sé, senza una chiara destinazione, senza futuro”.
Amante di Dante e della cultura italiana, di Rilke e di Virgilio, autore versatile, autoironico, attratto dalla “somma alterità” dello zenit, Strand ha dato voce particolarmente all’assenza quale propellente del reale, un “qualcosa che fornisce una lacuna” da colmare. Ecco il suo testo più noto, vero e proprio manifesto di poetica: “In un campo / io sono l’assenza / del campo. / E / sempre così. / Ovunque io sia / io sono ciò che manca. / Quando cammino / divido l’aria / e sempre / l’aria refluisce / a riempire gli spazi / in cui era stato il mio corpo. / Abbiamo tutti motivi / per muoverci. / Io mi muovo / per tenere insieme le cose”. (Pare che questa poesia sia stata scritta in venti secondi durante una partita a carte.) Passeggiando nei versi di Strand troviamo molto vento, treni e fattorie, uno specchio, l’asprezza dello Utah, l’oceano e i laghi, l’Ade, il giardino: ogni oggetto sembra parlarci di una joy, presupposta dalla difficoltà stessa della gioia di scrivere.
Forse la speranza dell’immortalità o l’aculeo della nostalgia. “Mi ricordo da giovane, quando il crepuscolo lasciava strada all’oscurità mi perdevo tra le stelle gialle del gelsomino. E io andavo alla deriva in una versione voluttuosa della galassia, sempre più lontano, via, più lontano. Quella era gioia, quell’andare alla deriva”.