Conversazione con la regista di “Traviata” attorno al corpo femminile, alla non-sensualità del letto come luogo della passione, al potere inalterato dei corsetti di Thierry Mugler. In attesa del debutto a Caracalla
Quando sulla mail plana lo storyboard del nuovo allestimento di “Traviata” di Sláva Daubnerová, in programma a Caracalla dal 19 luglio con Francesco Lanzillotta sul podio, nell’ambito del ricco programma sviluppato da Damiano Michieletto, ho un po’ di timore ad aprirlo perché temo di trovarvi un letto, come nell’allestimento di Mario Martone per l’Opera di Roma del 2021 col lettone modello putiniano sul quale gli ospiti di sesso maschile e ovviamente cis buttavano mantello e bastone.
Una simbologia così spiccia, così irrispettosa, della presa di possesso del corpo femminile da parte dell’uomo pagatore mi aveva irritato oltremisura e, considerando che la performer slovacca di avanguardia, passata alla regia da quattro anni, ha fama di non lesinare su segni e immagini, avevo l’idea che mi sarei irritata forte una seconda volta. Per carità, non è che Giuseppe Verdi fosse andato per il sottile col suo personaggio: “Una puttana deve essere sempre puttana”, aveva scritto nel 1854 allo scultore melomane Vincenzo Luccardi, con cui intratteneva una fitta corrispondenza, lamentandosi di un allestimento romano dell’opera sul quale la censura era andata sopendo e lenendo al punto di aver fatto “una Traviata pura e innocente” e dunque “incomprensibile” e “tante grazie! Perché così hanno guastato tutte le posizioni e tutti i caratteri”.
Anche Verdi, però, aveva delle tenerezze nei confronti della sua smaliziata mantenuta, che ha nel “cuor scolpiti quegli accenti” d’amore, mentre mantelli, bastoni e, accidenti, tube, decisamente no: richiamano l’Arancia meccanica, i drughi, gli stupri. Insomma, cose che la povera Alphonsine Plessis, modello originario della vicenda, trasposta da Alexandre Dumas figlio che ne era innamorato nel celebre romanzo “La dama delle camelie” e poi da Francesco Maria Piave e Verdi nell’opera che l’ha consegnata all’immortalità, ovviamente non ignorava, essendo stata venduta dal padre a un vecchio a tredici anni e poi instradata alla prostituzione, ma che non di meno, grazie alla sua bellezza e alla sua intelligenza, era riuscita ad allontanare dal proprio orizzonte assurgendo a fama e denaro dapprima come mantenuta, una delle prime “grandi orizzontali” della storia di Francia e, quindi, come moglie del conte Edouard de Pérregaux, che l’aveva assistita anche sul letto di morte, nel 1947, a soli ventitré anni, nei giorni del carnevale che sono evocati nelle prime righe del terzo atto dell’opera e anche nel testo originario perché nulla “fa” più patetico, cioè nulla è più popolare, di un morir sì giovane nei giorni in cui tutti si danno alla pazza gioia. Alphonsine, divenuta Marie nella vita, Marguerite nel testo di Dumas, Violetta in quello di Verdi, muore di tubercolosi, male del secolo sia per quantità di vittime sia perché indicata come fattore culturale e sociale: l’immaginario ottocentesco la associava, negli uomini, alla genialità creativa, mentre si riteneva che fra le donne fosse segno di una condotta di vita amorale, condotta senza freni e senza risparmio. Alphonsine-Marie la puttana non poteva dunque che morire di tisi. Ed è proprio da questo, dalla distruzione del corpo e “lo stigma sociale che ne deriva”, come mi dice al telefono in una caldissima giornata di fine giugno, in una pausa di lavorazione, che Daubnerovà è partita per raccontare la “sua” Violetta: “Il corpo e la malattia della protagonista sono il centro della messinscena. Il corpo distrutto di Violetta è una metafora della sua psiche, devastata dall’abuso sessuale infantile e dai successivi anni di prostituzione, che è diventata per lei un mezzo di sopravvivenza istintiva”. Sbircio finalmente il tableau dei riferimenti e vi trovo Helmut Newton, i corsetti di Thierry Mugler “grande inventore di mondi femminili potenti e assertivi”, oltre che ottimo costumista come ognuno ricorda, foto storiche di malate di tisi e anche di mente in uno di quei lettini d’ospedale modello Salpetrière, Frida Kahlo, ferita nel corpo e nell’anima, e soprattutto di Camille Claudel, un’altra votata al martirio per amore, con la sua “Femme accroupie”, accucciata, ripiegata su se stessa, la spina dorsale in evidenza, il sesso aperto, che è anche uno dei modelli della messinscena (Caracalla si presta notoriamente molto alle scenografie grandiose). Qui e là, nella conversazione – Daubnerovà si è informata e parecchio come in genere fanno le donne – spunta la Susan Sontag del saggio “Illness as metaphor”, pubblicato nel 1978, che puntualizzava come, nel XIX secolo borghese e corrottissimo, si pensava che la tubercolosi producesse “spells of euphoria”, incantesimi di euforia, oltre ad “aumento dell’appetito” e va da sé, “desiderio sessuale esacerbato” e che era quanto immaginavano Piave, Verdi e Dumas: “Se mi curassi, morirei, mio caro”, fa dire lo scrittore da Marguerite ad Armand: “Ciò che mi sostiene, è la vita febbrile che conduco”, e che è perfetto contraltare del “sempre libera degg’io” di Violetta e della sua premessa nello scambio con Flora “al piacer m’affido e io soglio/con tal farmaco i mali sopir”. Sfrenarsi di vita, sapendo di avere l’alito della morte addosso. Dice Daubnerovà di aver voluto raccontare la storia dal suo punto di vista: la solitudine, la sofferenza per lo stigma sociale causato dalla sua malattia e dal passato di prostituzione, “con molti momenti surreali”, riferibili a un delirio premorte.
“Anche il rapporto romantico ed erotico con Alfredo altro non è che un ultimo tentativo si sottrarsi alla morte, un istinto basilare che lega eros e thanatos”. Donna caduta, ma anche donna di successo, Violetta, per la quale la regista ha guardato alla moda dei primi Anni Novanta (“lo stile è sempre una grande fonte di lettura sociale”) e, al contempo, a figure rilevanti della storia e della letteratura come Veronica Franco. Che però, osservo, era tutto fuorché una donna vinta: riuscì ad essere assolta perfino da un processo per stregoneria. Di certo corrompendo e ricattando, ma insomma senza finire sul rogo, che era un po’ il destino segnato una volta che si finiva nelle mani dell’inquisizione. “Vero”, ribatte: “Però mi interessava il suo lato intellettuale, gli studi a cui si dedica, come Marie, per sollevarsi dalla propria condizione. Io parto sempre dalle donne”. Lo ha fatto con Manon, concepita come un dramma sociale per il Teatro Nazionale di Praga pochi mesi fa, per “La piccola volpe astuta” di Janáček , trasformata in un cupo racconto dello sfruttamento e della devastazione umana per il Teatro Nazionale Slovacco di Bratislava, per Leonora della “Forza del destino”, donna forzatamente in guerra. Muoiono sempre, le donne dell’opera, come ricorda quel favoloso spettacolo che è “The seven deaths of Maria Callas” di Marina Abramovic, altro riferimento di questo progetto: “Accade perché non vogliono rassegnarsi al loro destino, perché si ribellano”. I costumi di Traviata sono di Kateřina Hubená, e sono appunto forti, volitivi, segno di quest’epoca come di quella di Newton: il letto, in pratica, non esiste perché Violetta, se le premesse diventeranno messinscena effettiva, andrà a morire altrove. In se stessa.