“Hanno dato tutto: le loro voci, i loro sogni, le loro vite”. I famigliari delle vittime del regime chiedono la verità sulla sorte dei propri cari. In ballo non c’è solo il senso di giustizia, ma anche il superamento di un trauma collettivo
Per tre giorni il salone del Museo nazionale di Damasco è diventato il tempio della rabbia e della resilienza di chi finalmente si sente libero di rompere il silenzio. Le famiglie delle persone scomparse si sono incontrate qui e si sono ritrovate faccia a faccia con i rappresentanti del governo di transizione e con la commissione ad hoc per le persone scomparse. In una specie di seduta di autocoscienza collettiva, i parenti delle vittime si sono abbracciati, si sono riconosciuti e hanno raccontato le proprie storie. Chi ha avuto il padre rapito dal mukhabarat – i servizi segreti del regime – chi dallo Stato islamico, chi ha perso i propri cari mentre erano in fuga dalla Siria, da migranti. Tante storie diverse, drammi legati assieme da un senso di disperazione che accomuna migliaia di famiglie, ciascuna alla ricerca di risposte dal nuovo governo. Non vogliono solo giustizia, cercano conforto. “La ricerca delle persone scomparse non è solo una questione giudiziaria, ma umanitaria”, nota Veronica Bellintani del Syrian Legal Development Program, un’ong che collabora con il governo di Damasco. Ci sono anche loro, la società civile, le ong come Syria Campaign tra gli organizzatori dell’evento, ma anche artisti e intellettuali, voci a lungo sopite dal regime assadista. C’è Rania al Najdi, che presenta una sua installazione di origami. Sottotitolo: “Per coloro che non saranno dimenticati”. Il senso è fare comunità, parlare chiaro e forte per la prima volta della vita di persone fatte sparire in oltre un decennio di guerra. I sopravvissuti e i parenti degli scomparsi, le madri, i testimoni, affiancati da specialisti del settore, anche da psicologi per curare le ferite lasciate dall’assenza. Riconoscimento, sostegno, responsabilità, sono le richieste fondamentali, i diritti rivendicati da tutti.
Nadia, 54 anni, madre di due ragazzi scomparsi dopo essere stati rinchiusi nelle prigioni di Assad, racconta: “Per noi non è solo doloroso, è anche vergognoso il fatto che oggi ci ritroviamo qui a chiedere risposte sulla sorte dei nostri figli, giovani che erano insorti in nome della nostra libertà – dice – Hanno dato tutto: le loro voci, i loro sogni, le loro vite. Sono la ragione per cui oggi viviamo in una terra libera”. Per Nadia, i suoi due figli non sono spariti. “Sono da qualche parte, vivi o morti. E devono essere ritrovati”. Le fa eco Amal, madre di uno dei detenuti. “La ricerca dei corpi è un viaggio lungo e doloroso. Ma è responsabilità del governo trovare i nostri figli e dargli una sepoltura dignitosa”. Amal ha riconosciuto suo figlio dalle foto di Caesar, il membro della polizia del regime che ha trafugato 55 mila immagini che provavano i crimini e le torture di Assad, aprendo una breccia sulla reale portata della brutalità del regime. Ora la donna è alla ricerca dei resti di suo figlio: “Chiediamo solo che non siano dimenticati. Ci vorrebbe un monumento, così che il mondo ricordi ciò che i nostri figli hanno fatto per questo paese. Anche senza il loro corpo. Non possiamo accettare che siano svaniti o che siano cancellati dalla memoria come se non siano mai esistiti”. Rima, 47 anni, ha perso il figlio Abdullah nelle carceri di Assad e oggi chiede un aiuto economico: “Non vogliamo elemosinare cibo alle organizzazione umanitarie. Non mi pento della rivoluzione, ma oggi sono responsabile per i miei figli e per quelli lasciati da Abdullah. Lui ha scelto di sacrificarsi per la rivoluzione e per la dignità”.
Il sapore della liberazione dal regime, l’ansia della ricerca della verità sui propri cari scomparsi sono sensazioni nuove per la Siria di oggi: “Siamo qui per capire, per sentire il vostro dolore. Per condividere il vostro destino”, dice Ammar al Issa, membro della Commissione della giustizia di transizione istituita da Ahmad al Sharaa. Il nuovo presidente ha dimostrato di avere a cuore la questione. Ricomporre i pezzi di un paese significa dare voce a chi l’ha persa per così tanto tempo. Sono tante vite, quelle che vogliono farsi ascoltare nella nuova Siria, i parenti e gli amici di circa 150 mila persone scomparse. Un popolo intero. “E’ da eventi come questo che si crea fiducia – spiega Bellintani – Immaginate cosa può significare per una madre che si è vista portare via suo figlio dal regime essere finalmente accolta al ministero degli Esteri, in un palazzo del potere, e vedersi offrire un caffè, essere trattata con gentilezza e trovare qualcuno pronto ad ascoltarla”. Sharaa ha creato una commissione ad hoc presieduta da un professore universitario, Mohammad Reda Jalkhi. Ai suoi collaboratori racconta della promessa che gli ha fatto il presidente: “Lavoriamo per tutti i siriani”, un proposito non scontato per un paese su cui pende la spada di Damocle dell’odio settario, delle divisioni religiose. Il mandato della commissione include anche le persone sparite per mano di Hayat Tahrir al Sham, il gruppo islamista originario di Idlib guidato dallo stesso Sharaa.
C’è quindi il tema della giustizia, della responsabilità, ripete Rima. “I colpevoli devono pagare. Non ci sentiamo al sicuro con loro che continuano a camminare liberi tra di noi”. Il riferimento è alla riabilitazione di alcuni esponenti del vecchio regime decisa da Sharaa, un gesto dovuto a logiche di realpolitik e tenuta istituzionale, ma incomprensibili per i famigliari delle vittime, che lamentano scarsa trasparenza. E poi c’è un altro tema, quello del trauma, che invece necessita di aiuto psicologico. Il dottor Jalal Noufal, psichiatra e membro della commissione per le persone scomparse, dice che “la caduta del regime di Assad è stato un passo necessario verso il recupero psicologico. Questo perché il trauma psichico e l’ansia che hanno afflitto queste famiglie sono legati direttamente al regime”. Il dottore tranquillizza i propri pazienti. “Coloro che un tempo hanno instillato la paura in voi non sono più all’opera. Hanno perso il loro potere di fare del male a chiunque”.