“Nei momenti più bui ho pensato al suicidio. Sul tax credit avevo ragione io”. Intervista a Gennaro Sangiuliano

Il linciaggio per l’affaire Boccia, il rifiuto per la politica (“ho chiuso e non mi candido in Campania”), gli amici “spariti” e la nuova vita a Parigi. Una giornata con l’ex ministro della Cultura

Parigi. C’è un momento preciso in cui, parlando, la voce rallenta. Lui non lo annuncia, non lo prepara. Dice soltanto: “A un certo punto ho pensato al suicidio”. Lo dice così, nudo. Non cerca effetti, Gennaro Sangiuliano. Non cerca indulgenza. Anche se la voce ancora gli trema. Ma quel pensiero lo ha attraversato. Lo ha sentito. “Avevano costruito un’altra persona. Io leggevo cose su di me che non riconoscevo. Ero trasformato in una figura da abbattere. Tutto era usato contro di me. Tutto”. Il riferimento è al caso di Maria Rosaria Boccia. Ma non alza i toni, l’ex ministro che oggi vive a Parigi da corrispondente della Rai. Non nega. Non attacca. Constata. “Con la politica ho chiuso. Basta”. Poi aggiunge: “Anche se nella vita, mai dire mai”. Non ti candidi in Campania alle elezioni regionali? “Me l’hanno chiesto, ma ho rifiutato”.

Alla domanda se si sia sentito solo nelle settimane del affaire Boccia, Gennaro Sangiuliano non risponde direttamente. Ma la solitudine la raccontano gli spigoli del discorso. “Mi ha scritto Giorgetti. Non lo sentivo da mesi. Ci eravamo scambiati gli auguri a Natale e basta. Poi, all’improvviso, l’altro giorno, quando riesplodeva il caso del tax credit, la storia di questo Kaufmann che ha truffato lo stato per 800 mila euro, mi arriva un messaggio: ‘Stamattina ho pensato a te. Avevi ragione’. Punto”. Lo dice secco, senza orgoglio. Ma anche senza amarezza, forse. Più avanti, aggiunge che lo hanno cercato anche Liliana Segre e Andrea Orlando. Sono cose che tiene a dire. Non per vantarsi, ma perché contano. In quei giorni tutto contava. Di alcuni, invece, non parla. Ma si capisce. Le telefonate che non arrivano più. I messaggi che spariscono. Gli amici che si eclissano. “Gente che ho aiutato e che poi non si è più fatta viva. Ma non faccio nomi”. Però mi fa il nome di un noto giornalista televisivo che s’era raccomandato con lui per un documentario che aveva girato, e che lui ha aiutato a portare a un Festival prestigiosissimo. “Poi è stato uno dei più feroci con me, forse il più feroce. Non dico che avrebbe dovuto difendermi perché lo avevo aiutato, ma almeno avrebbe potuto trattarmi come un essere umano”. Ecco. Quando invece gli si chiede di Lucia Borgonzoni, la sottosegretaria al ministero della Cultura, Sangiuliano risponde così: “Zero”. Una parola sola, piatta. Nessun commento. Ma quel “zero” forse dice più di molte accuse, chissà. In tanti dicono che tante notizie, vere, verosimili, fasulle su Sangiuliano, in quei giorni, uscissero proprio dalle stanze del ministero. Malizie. Insinuazioni. Dettagli sporcificanti. “Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa invece per me sono come due fratelli”, dice lui. “Li sento spesso, anche Salvini”. Giorgia Meloni? “Ci scambiamo messaggi per Natale, per i compleanni e qualche volta anche sulla politica internazionale”. E Alessandro Giuli, l’attuale ministro della Cultura, il tuo successore? “E’ più bravo di me. Si sa fare concavo”.

Sangiuliano ha ancora addosso qualcosa del ministro che fu, e insieme qualcosa del cronista che è tornato a essere. Siamo a Parigi, negli uffici della Rai in avenue Marceau, VIII arrondissement. Da una finestra si vede la Torre Eiffel. La stanza di Sangiuliano, ora corrispondente Rai dalla Francia, è un forno acceso. Ma non ventilato. L’aria condizionata non funziona e il sole filtra impietoso dalle vetrate. E’ una serra. Mentre Sangiuliano lavora, un operaio armeggia svogliatamente su una scala, solleva il controsoffitto, sbuffa. Parbleu! C’est le bordel! Putain! “Non bisogna lamentarsi, né chiedere di fare in fretta. I francesi si arrabbiano facilmente”. Gli schermi della televisione intanto parlano incessantemente della “canicule”. La canicola. Il grande caldo. 24 ore su 24. L’Iran e il medio oriente sono la seconda, persino la terza notizia in Francia. Banalità di inizio luglio? “Forse è un po’ esagerato. Ma ho fatto un servizio anche io, per il Tg1”.

La scrivania del corrispondente ed ex ministro è ordinata, quasi scarna. Una grammatica francese, Les conjugaisons. Pour tous, un Cioran, una biografia di Cesare firmata Carcopino, e sulla libreria (vuota) una matrioska con il volto di Xi Jinping. Ogni cosa parla di un uomo in transizione: da un ruolo politico a una nuova postura, da Roma a Parigi, da uomo di potere a corrispondente, da bersaglio a testimone. “Ho subìto una violenza mediatica bestiale, non commisurata all’entità del caso. I giornali mi hanno distrutto. Un grande quotidiano nazionale un giorno uscì con tredici pagine su di me. Tredici!”. La Repubblica? “No”. Il Corriere della Sera, allora. “Non mi va di rimarcare. Gli psicologi che mi seguono mi hanno consigliato una cosa: rimuovere. E così sto facendo. O almeno ci provo. Dico solo che i giornali, e anche le televisioni, hanno pubblicato notizie false, insinuazioni personali, foto private”.

A distanza di mesi qualcosa si è mosso, però. “Ho ricevuto un primo bonifico”, dice. Una querela vinta? “Una mediazione extragiudiziale con una testata giornalistica. Ne ho avviate diverse”. E lo dice con una precisione che vale quanto un accento. Come a dire: non tutto si cancella. Alcune cose restano. E parlano da sole. “Addirittura un settimanale, Oggi, intervistò un ginecologo, anonimo, per stabilire la compatibilità di una presunta gravidanza della Boccia con una relazione con me. Una gravidanza che non c’è mai stata. Lei non era incinta. Un altro settimanale, Gente, aveva fotografato mia moglie appena uscita dal parrucchiere, con sotto questa didascalia: ‘Nuovo look per la signora Sangiuliano. Che vorrà dire?’. In quel momento era tutto troppo. Avrei potuto anche non dimettermi, sì. Aspettare il giudizio del tribunale dei ministri sul presunto peculato. C’erano, e ci sono cose più gravi in giro. Io non ho fatto niente di male. Ma non reggevo più emotivamente. Io stesso ormai dubitavo anche delle cose di cui ero sicuro”.

A Parigi vivi da solo? “Sì, mia moglie è rimasta a Roma”, risponde Sangiuliano, interamente vestito di scuro, sneakers nere ai piedi, polo blu a maniche corte, uno Swatch Omega al polso e una fede d’oro bianco al dito. Ogni quanto torni in Italia? “Una volta al mese circa. Arrivo all’aeroporto e trovo la scorta”. Sei sotto tutela? “In Italia sì”. E le ragioni per cui Sangiuliano è scortato sono collegate anche al caso Boccia. E alla famiglia della signora.

Le dimissioni arrivano nel settembre 2024, dopo settimane di attacchi, tra voci, lettere, sghignazzi, smentite, una ferita alla testa, e una sovraesposizione tossica. “Conservo ancora i messaggi di solidarietà che ho ricevuto. Conte, Fassino, perfino Travaglio. La moglie di Fassino mi si è avvicinata, durante la cerimonia del 2 giugno: ‘Ho sofferto per lei. Hanno esagerato’”.

Quando parla della sua vita da ministro, Sangiuliano alterna un tono ferito a uno spavaldo. Quando gli si ricorda per esempio la gaffe al premio Strega, la battuta di Geppi Cucciari, lui risponde così: “Avrei dovuto dire che non potevo leggere quei libri perché stavo leggendo Dostoevskij”. E’ un modo per proteggersi, forse, ma è anche un tratto della sua personalità. Come quando strappava i microfoni di mano ai giornalisti per fargli lui le domande. Arroganza? “Sbagliai a farlo, veniva fuori un tratto che non riconosco nel mio carattere”. Ma Gennaro Sangiuliano è così: pieno di certezze e pieno di dubbi, a volte tronfio, a volte spiritoso, a volte disarmato. E anche disarmante. Uno che ti consiglia “L’Étranger” di Camus come se fosse una scoperta recente – “l’ho appena finito in francese te lo consiglio”, mi dice – e poi, al ristorante, alla Brasserie Lipp, su boulevard Saint-Germain, poche ore dopo avere detto “sono da sempre francofilo”, J’ai étudié le français à l’école primaire, ordina delle frenc frìs “come dicono qua”, strappando una smorfia al cameriere parigino, dunque antipatico, che gli corregge pure l’inglese.

Ma Sangiuliano è anche quello che aveva ragione sul tax credit al mondo del cinema. Altroché, se aveva ragione. “Lo sai che un produttore ha rendicontato allo stato sessantamila euro di carta igienica? O che uno faceva proiettare il film alle otto del mattino in una sola sala, per fingere una distribuzione e avere lo sconto fiscale? Ma chi va al cinema alle otto del mattino?”. Spese gonfiate. Film che incassano zero. Film che nemmeno sono mai usciti. “Per essere intervenuto sul tax credit, per avere messo un freno, per aver inserito qualche regola di buon senso, sono stato fucilato. Io ho sempre detto che 300-400 milioni all’anno sono una cifra giusta per il cinema, purché distribuiti in base a regole serie. Non si trattava di eliminare i finanziamenti, ma di razionalizzarli. Hanno detto che volevo distruggere il cinema italiano. Invece io lo volevo salvare. Io vi domando: la qualità del cinema italiano, con tutti questi soldi, è migliorata o peggiorata? Secondo me è peggiorata. L’anno scorso abbiamo prodotto 800 film in un anno, contro i 300 della Francia e i 200 della Germania. Ma neanche il cinefilo più accanito può guardare 800 film. E quanti di questi film sono diventati dei successi? Ogni paese ha sfondato con almeno un titolo, per esempio sulle piattaforme come Netflix. Pensate alla ‘Casa di carta’, che è una produzione spagnola. Noi? Niente. O quasi. Col Tax credit il cinema è diventata una macchina che produce quantità, non qualità”.

C’è voluto un clamoroso e misterioso duplice omicidio a Villa Pamphilj per scoprire che un americano, senza addentellati in Italia, Kaufmann, aveva truffato lo stato per ottocentomila euro. Viene un dubbio: se uno come l’omicida di Villa Pamphilj riesce a rubare così tanto denaro, gli italiani, le vere o finte case di produzione italiane, che conoscono regole e persone, cosa hanno fatto? Quante altre truffe ci saranno? “Una marea. Il tax credit è come il superbonus edilizio. E anche i costi sono impazziti: un camion per le riprese, un parrucchiere di scena, oggi costano il doppio rispetto a cinque anni fa. Proprio come è successo con il superbonus. Nel 2016 il fondo per il cinema era sotto i 400 milioni. Nel 2017 è salito a 423, poi siamo schizzati a 850 milioni nel 2022. Io lo riportai a 700 milioni. E per questo sono stato linciato. La segretaria del Pd, Elly Schlein, mi ha attaccato per la famosa lettera che mandai a Giorgetti proponendogli di togliere 100 milioni al tax credit. A Giorgetti scrissi all’incirca: ‘Prenditi questi soldi e usali per la sanità, o per quello che volete’. Questa storia del cinema creò un clima ostile, in quei mesi”. Che poi ha favorito l’assalto sul caso Boccia? “Non credo alla Spectre. Non credo ci sia stato un complotto del ‘cinema’ contro di me. Ma si è creato un clima ostile, generato nelle terrazze romane. Questo sì. E la ferocia, quando poi mi sono trovato in difficoltà, è dipesa anche dal fatto che avevo toccato i fili dell’alta tensione. Interessi economici fortissimi. Sono stato linciato pure per la mostra sul Futurismo. Una mostra bellissima, che ha fatto centomila visitatori, che è stata elogiata da Gentiloni e da Calenda. Eppure mi hanno attaccato. Come se fosse un’azione di propaganda politica raccontare Boccioni e Fortunato Depero. La Boschi, che mi criticava un giorno sì e uno no, ci è andata pure lei, ha fatto un video e l’ha messo su Instagram”. Qua Sangiuliano fa una lunga pausa. “Forse ho fatto troppo. La mostra su Tolkien, il biglietto al Pantheon, la ristrutturazione di Palazzo Citterio per la quale il sindaco Sala mi telefonò ringraziandomi, l’Albergo dei Poveri a Napoli, tutti i target del Pnrr raggiunti… Troppa presenza, troppa esposizione. Forse ho sbagliato”.

Sangiuliano ha l’aria di chi si riallaccia ogni mattina la cravatta davanti allo specchio per ricomporsi, più che per abbellirsi. “Sai qual è il punto? Che in Italia, se fai, dai fastidio. Se galleggi, sopravvivi. Io ho fatto. E ho pagato”.

Quando hai visto Elio Germano che attaccava il tuo successore Giuli, cosa hai pensato? “Ho pensato che è una casta che difende i propri interessi. Non è cultura, è potere. E’ rendita. Che fa male al cinema. Un giorno stavo ai Parioli, dietro viale Romania, in quella zona di Roma composta da magnifici villini del primo Novecento. Un amico avvocato mi mostra le case: ‘Qui ci abita il regista X, qui il regista Y’. Alcuni di questi registi col tax credit hanno guadagnato in un anno più dell’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi. E non sto parlando di Steven Spielberg, attenzione. No, ma di registi italiani che prendono milioni per film che poi fanno seimila spettatori in sala. Una follia. Un sistema drogato”.

Rimpianti? “Sì certo, tanti”. Per esempio? “Forse non avrei dovuto fare il ministro, ma restare a fare il giornalista. Stavo meglio. A volte nei momenti più neri ho anche ripensato alle scelte che ho fatto nella vita. Ho pensato che sarebbe stato meglio seguire i miei amici di sempre, gli amici del liceo, e fare il medico come loro. Sarei stato un bravo medico, credo. Non avrei avuto nulla a che fare con Roma e con i Palazzi. E poi ho rimpianti per l’intervista al Tg1, quella con Gian Marco Chiocci, fatta poco prima delle mie dimissioni. Non la rifarei. Ha dato clamore a una vicenda che non lo meritava, anche se con Chiocci ho un ottimo rapporto, lavoriamo bene, ed è un grande professionista”.

Fu un’intervista imposta? “No comment. Voglio rimuovere tutto. Adesso ho trovato la mia dimensione tranquilla. Vivo a Parigi, studio francese tre volte a settimana con un professore della Sapienza che si collega via internet da Roma, e lavoro come corrispondente Rai. Mi sveglio alle 6.30, leggo i giornali francesi e italiani, poi sento i producer per organizzare il lavoro delle troupe. Vado a piedi o in metro. Ho anche la tessera scontata per gli over 60. E qui nessuno mi chiede nulla del ministero, mi dedico alla politica estera. Ho appena finito di scrivere un libro su Erdogan, molto critico. Mi ha preso tre anni di lavoro. Il prossimo vorrei farlo su Mitterrand. Chissà. Mitterrand prendeva tutti di petto, ma lui era francese. Da noi se prendi i tori per le corna finisce che ti incornano loro”. E forse ha ragione Sangiuliano. Sul cinema, sul potere, sulla ferocia. Di sicuro sbaglia anche l’accento sulle frenc frìs. Ma probabilmente è un dettaglio.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori “Fummo giovani soltanto allora”, la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.

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