Il peso della digital tax nel negoziato sui dazi trumpiani

Ripartono le trattative tra Stati Uniti e Canada, dopo che Carney sospende la tassa su Big Tech. Tutte le carte verranno messe sul tavolo nelle prossime tre settimane, entro il 21 luglio (se Trump non cambierà di nuovo idea)

Vuoi vedere che tutto questo bailamme sui dazi con l’Europa e con il Canada ruota attorno alla digital tax? Il sospetto è fondato se guardiamo al timing. Le Big Tech avrebbero dovuto pagare ieri il 3 per cento sui redditi guadagnati sul mercato canadese e Donald Trump sabato ha chiuso l’interruttore: “Il Canada è un paese molto difficile con il quale trattare – ha tuonato –. Ha annunciato una tassa sui servizi digitali che grava sulle nostre imprese tecnologiche, è un attacco diretto e palese al nostro paese”. Dunque, tutte le discussioni su scambi e tariffe sono state interrotte. Il presidente americano l’ha messa giù dura e il premier canadese Mark Carney ha fatto un passo indietro sperando di muoverne due avanti. La tassa è sospesa e le trattative possono riprendere nella speranza di raggiungere un accordo entro il 21 luglio. Ma su quale base?

Il ministro delle Finanze non ha stappato champagne; facile battuta visto che si chiama François-Philippe Champagne, ma in effetti cerca di tener duro e sostiene che Ottawa andrà comunque avanti sulla digital tax. E’ tutto da vedere. Il conflitto con gli Stati Uniti si è manifestato anche nell’ultima riunione del G7. E Trump l’ha avuta vinta. Ha minacciato una rappresaglia in base all’ormai famoso “Big Beautiful Bill” e nel comunicato finale l’imposta è stata confermata per tutti tranne gli Usa, che così risparmiano circa cento miliardi di dollari. I quattrini si contano e si pesano, naturalmente, ma è chiaro che lo scontro ha un valore politico e ideologico persino. Il piccolo gruppo di manifestanti No Bezos a Venezia gridava “Tu le tue tasse non le paghi mai”. Il segretario al Tesoro Scott Bessent ha dichiarato che il Canada ha seguito l’Unione europea e si tratta di un retaggio degli anni di Trudeau, odiatissimo da Trump fin da quando durante primo mandato il bel Justin scambiava sorrisi con Melania. In ogni caso la retroattività (a partire dal 2022) è un’aggravante senza dubbio discutibile.

Un impasto di politica fiscale e commerciale, politica della concorrenza e politica di potenza: a Trump sta a cuore dimostrare che agitando un gran randello e parlando a muso duro (al contrario di quel che diceva il suo amato Theodore Roosevelt) riesce ad avere ragione. Comunque la si metta, un 3 per cento non fa crollare le Big Tech, ma costringe Washington a piegarsi di fronte a decisioni altrui, non importa se prese da governi alleati o amici. Del resto con i nemici il presidente americano si mostra molto più malleabile, quanto meno con quelli che giudica forti abbastanza da ostacolarlo: lo si è visto proprio sui dazi con la Cina quando ha dovuto mollare accettando la superiorità sulle terre rare e le materie prime strategiche acquistate da Pechino in tutto il mondo e lavorate per essere esportate ovunque a cominciare dagli stessi Usa. Una debolezza manifestata anche verso la Tesla di Elon Musk, il cui fatturato per quasi il 50 per cento viene prodotto a Shanghai. Trump che ha imposto una tariffa del 25 per cento sulle auto (salvo poi concedere qualche sconto temporaneo) colpisce più la Germania (oltre a Canada e Messico) che la Cina.

Carney ha deciso di evitare lo scontro frontale e ha adottato una tattica da judoka. Domenica ha telefonato a Trump e gli ha annunciato una pausa sulla tassa pur di riprendere le trattative sui commerci e il governo ha formalmente deciso di sospendere la riscossione dovuta il giorno dopo, lunedì 30 giugno. Tutte le carte verranno messe sul tavolo nelle prossime tre settimane, entro il 21 luglio se Trump non cambierà di nuovo idea. Le borse ieri hanno preso con distacco la diplomatica scelta canadese, sono salite di poco per poi appiattirsi. Quel che continua regolarmente a crescere è il rendimento sui titoli federali a dieci anni, ieri al 4,27 per cento, più del Btp italiano che è al 3,5 per cento. Il Tesoro americano non è più un rifugio sicuro? Non come un tempo. Lo stesso vale per il dollaro sceso bruscamente proprio a partire dal Liberation day, il 2 aprile scorso. Ieri il Financial Times ha pubblicato un grafico che mostra una discesa del dollaro pari al 10 per cento in media negli scorsi sei mesi (13 per cento con l’euro), la più seria caduta dal fatidico 1973 quando, ormai non più collegato all’oro, si svalutò del 15 per cento e cominciò a fluttuare liberamente. E’ una sconfessione rispetto ai desideri di Trump che vorrebbe un dollaro forte come scelta di potenza nazionale, anche se mostra una delle sue tante contraddizioni attaccando Jerome Powell: se la Fed facesse scendere i tassi come vuole il presidente americano, il dollaro scenderebbe ancora lungo il suo piano inclinato.

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