Wimbledon 2025 non è più solo tradizione ed eleganza, ma un laboratorio di tecnologia, nuovi linguaggi e atleti iperconsapevoli: continuare a raccontarlo con le solite metafore è una scorciatoia stanca. Serve un giornalismo sportivo più coraggioso, capace di cogliere i cambiamenti del tennis moderno
C’è un modo sicuro per non farsi leggere quando si scrive di Wimbledon: cominciare con la parola “tempio”. Oppure “gentlemen”. Oppure “verde smeraldo”. C’è una formula consolidata, una comfort zone del cronista stanco, che ogni anno si riattiva a luglio: Wimbledon come eterno ritorno dell’eleganza, dei pantaloncini bianchi, delle tradizioni immutabili e dell’impeccabile contegno britannico. E’ una narrazione che funziona – anzi: funzionava – ma che nel 2025 rischia di essere peggio di un errore. E’ una scappatoia.
Sì, Wimbledon è ancora il torneo più iconico del mondo. Ma proprio per questo merita di essere raccontato con più coraggio. Perché nel frattempo, tutto è cambiato. Non il prato, d’accordo. Ma il modo in cui si gioca, si guarda, si misura il tennis. E soprattutto il modo in cui si dovrebbe scriverne.
Primo avviso ai naviganti: se il vostro pezzo comincia con le fragole con la panna, potete chiuderlo lì. Non c’è più nulla da dire. Le fragole sono come i coriandoli del carnevale: esistono, ma non definiscono l’evento. Il vostro lettore le ha già viste mille volte. E intanto si è perso il fatto che quest’anno Wimbledon è il primo Slam a usare in tempo reale un sistema predittivo basato su AI per analizzare il comportamento dell’erba sotto i piedi dei giocatori. Cosa vuol dire? Che se un rimbalzo schizza via più del previsto non è solo colpa del campo: è colpa tua che non lo sapevi.
Poi c’è il linguaggio. Ogni volta che si dice che Wimbledon “non è solo sport, è un rito”, da qualche parte muore un punto di break. E’ una finale Slam, mica una messa anglicana. La generazione dei nuovi tennisti non è lì per rispettare le liturgie: è lì per vincere. Lo stesso corridoio centrale sotto la frase di Kipling – “Se saprai affrontare il trionfo e la sconfitta allo stesso modo” – ormai viene attraversato da ragazzi che hanno più follower che letture, più match point salvati che libri di poesia. Ma questo non li rende meno profondi. Li rende diversi. Scrivere di Alcaraz o Rune come se fossero eroi mitologici inconsapevoli è una forzatura. Raccontarli per come sono – iper-atleti, macchine di concentrazione, corpi digitalizzati – è più interessante.
E poi c’è l’Italia. Quest’anno Wimbledon parla un italiano fluente. Jannik Sinner arriva da numero uno, ed è il primo vero italiano, dai tempi di Pietrangeli (ma molto più forte), a non avere complessi da erba. Lo raccontiamo ancora con le metafore su Heidi e la Val Pusteria, ma in campo gioca come se fosse cresciuto al Queen’s Club. E’ preciso, metodico, glaciale. Meno pittoresco di Berrettini, ma più pericoloso. E’ l’italiano che l’erba voleva da anni. E se c’è un anno per smettere di dire “speriamo che non cada al terzo turno”, è questo.
Wimbledon 2025 è anche il torneo in cui il pubblico si comporta diversamente. Non è più solo una tribuna di cappellini panama e signore con la camicetta inamidata. E’ una platea informata, che segue i match con lo smartphone in mano, commenta i colpi sui social, guarda le statistiche in tempo reale sul maxischermo del campo n.1. Il Centre Court è ancora il Centre Court, certo. Ma è anche un set mediatico in tempo reale, dove le emozioni si misurano in meme e gli scambi finiscono in Gif prima che Djokovic abbia finito di sistemarsi i capelli.
A proposito di Djokovic: anche lui, forse, è all’ultima corsa. Forse no. L’unica certezza è che non si può più raccontare Novak come il guastafeste dei bei tempi andati. E’ il più vincente, il più costante, il più odiato e il più implacabile. Se cade, cadrà come un re scomodo. E se vince ancora, converrà cominciare a chiamarlo con rispetto vero, non con l’eterno tono da “grande ma antipatico”.
Nel frattempo, le donne giocano un tennis sempre più veloce, potente, televisivo. Ma nei pezzi dei cronisti sportivi c’è ancora troppa prudenza, troppa indulgenza, troppa vaghezza. Swiatek, Sabalenka, Gauff, Paolini: nomi concreti, storie precise, partite che meriterebbero la stessa narrazione epica che si riserva a ogni quarto maschile di cinque set. E’ ora di smetterla di trattare il tabellone femminile come l’antipasto e quello maschile come la portata principale.
In conclusione: Wimbledon non ha bisogno di essere sacralizzato. Ha bisogno di essere raccontato meglio. Senza fare la lista delle tradizioni, ma provando a spiegare perché, oggi, il tennis sull’erba è più complicato, più interessante, più umano – anche nei suoi tic, nei suoi sbalzi, nei suoi aggiornamenti software.
E’ tempo che anche il cronista, come il giocatore, impari a scivolare meglio sull’erba. E se proprio vi servono delle fragole, mangiatele in silenzio. E poi scrivete.