Delle manifestazioni di Belgrado si coglie il peso inaudito del contesto in cui avvengono. Tra 10 giorni si celebrerà il trentennale del massacro di Srebrenica: allora bastò poco per capire che si era perpetrata la carneficina più terribile dopo la Shoah. Oggi le stragi vengono messe nel conto della “guerra”
La manifestazione, molto grande, di Belgrado, colpisce per la tenuta di un movimento che dura da otto mesi, e non ha fatto che estendere la sua capacità di persuasione dagli studenti e i giovani al resto della società. Ci sono delle novità. Una è la netta rivendicazione delle dimissioni del presidente Aleksandar Vucicć e delle elezioni politiche anticipate (la scadenza è tra due anni). Un’altra è lo scontro fra i manifestanti e le forze antisommossa.
Ce n’è una terza, e più che una novità è il peso inaudito del contesto. Fra 10 giorni si celebrerà a Srebrenica il trentennale del massacro, sancito dalla giustizia internazionale, e da un anno anche dalle Nazioni Unite, come genocidio. Nel 2015, nel ventennale, Vučić commise l’imprudenza, e l’impudenza, di presenziare alla commemorazione, e dovette fuggire dallo sconfinato cimitero, protetto dalle guardie del corpo, alla ribellione di migliaia di donne e uomini che gli lanciarono sassi, bottiglie e tutto quello che riuscirono a raccattare. “Un tentato assassinio”, dissero i suoi. Quest’anno non si sognerà di venire. Anche perché appunto l’anno scorso l’Assemblea Generale dell’ONU ha votato una Risoluzione che dichiara l’11 luglio “Giorno internazionale della riflessione e della commemorazione del genocidio del 1995 a Srebrenica”. 84 Stati a favore, 19 contro (Russia, Cina, Ungheria…), 68 astenuti. (Al Consiglio di Sicurezza c’era il veto russo).
Lui, Vučić, aveva fatto di tutto per impedire quel voto. Che ha un corollario morale, in vigore da quest’anno: la condanna di ogni negazione del genocidio di Srebrenica in quanto storicamente avvenuto, e di ogni intento di glorificare le persone condannate per crimini di guerra, crimini contro l’umanità, e genocidio. Persone come quel generale Ratko Mladić che allora si fece riprendere che carezzava la testa di un frugolo musulmano, e gli offriva le caramelle. E mentre brindava con gli ufficiali olandesi dell’Onu prima che se la squagliassero lasciando in balia della strage le migliaia di uomini, dai 12 anni in su, affidati alla loro tutela. Il suo socio e concorrente, Radovan Karadzić, 80 anni, sconta l’ergastolo in una prigione speciale nell’Isola di Wight, scherzi della storia. Mladić, 83, ha chiesto ancora di essere rilasciato perché è malato: richiesta passabile se non volesse dire la consegna alla Serbia accompagnata dalle celebrazioni del suo eroismo.
Del contesto fa parte anche la stretta affinità fra la guerra serbista alla Bosnia musulmana del ‘92-’95, e quella russa all’Ucraina: la Grande Serbia e la Grande Russia. Hanno preferito non accorgersene in tanti, quelli che la guerra è “tornata in Europa” solo coi bombardamenti della Nato sulla Serbia del 1999 (!) e quelli dell’Ucraina che tanto abbaiò che si fece invadere. (Ieri Antonio Carioti, in una giusta ricostruzione per la newsletter del Corriere, ha però scritto che “almeno allora era raro trovare qualcuno pronto a sposare le ragioni dell’aggressore o, peggio ancora, a organizzare manifestazioni ‘per la pace’ in favore dei suoi interessi”. Magari! Le organizzavano le manifestazioni, anche dopo Srebrenica, anche dopo la strage del mercato – che oggi imputano ai bosgnacchi, un’autostrage – anche quando finalmente gli aerei decollarono da Aviano).
Vučić, formato all’estremismo nazionalista – “100 musulmani per ogni serbo ucciso!”- è morbidamente passato all’arte di barcamenarsi fra la candidatura all’Unione Europea e la complicità alla Russia di Putin. Ma chiama ancora Srebrenica “il vaso di Pandora”: stessa scuola. Non si barcamena il boss politico della Republika Srpska, una delle tre entità in cui l’accordo di Dayton, che fece finire la guerra senza far cominciare la pace (e regalò il comune di Srebrenica ai serbisti del genocidio), Milorad Dodik, che da allora ha cavalcato la minaccia della secessione. Condannato in Bosnia per attentato alla Costituzione – un anno di galera, 6 di privazione dei diritti – Dodik è frequente visitatore del Cremlino, accolto da un altro ricercato dalla Corte Penale internazionale: condizione oggi estesa a una gran parte dei padroni del mondo, dall’alba al tramonto del sole. Le ambizioni slavofile del nazionalismo ex jugoslavo sono frenate dal desiderio di essere accolti dall’Europa e dai suoi finanziamenti, ma sono insperatamente rafforzate dalla tenerezza fra Usa di Trump e Federazione di Putin. La Moldavia, la Transnistria, l’Ungheria, e la stessa Romania delle elezioni cancellate sono vicinissime, e l’Ucraina in mezzo. Odessa, per l’esattezza.
Trent’anni fa, bastò poco per capire che attorno a Srebrenica, per quattro giorni di sangue e sudore, si era perpetrato il massacro più terribile dopo la Shoah. Oggi, è l’aspetto del più largo e torbido contesto, le stragi in Ucraina vengono messe nel conto della “guerra” – in cui “sono tutti colpevoli”, in cui Bucha è “controversa” – e la carneficina a Gaza confisca il nome di genocidio, fottendosene della futura questione giuridica e sentendo inevitabilmente un’enormità che non sopporta se non la denominazione più forte. Forse sarà perciò meno sofferta la memoria di Srebrenica, o forse no, e una vicinanza fra gli 8 mila musulmani bosgnacchi trucidati a mano da più di duemila manovali di macelleria (poi, più facilmente ignorati, vennero i musulmani ceceni) e i musulmani palestinesi, farà gridare a Gaza anche nell’11 luglio di Potočari. E la lugubre archeologia di Srebrenica – periti forensi di 32 paesi del mondo, e una fatica ancora incompiuta che non serve solo a ridare i nomi, ma a certificare i modi bestiali degli assassinii – avrà a Gaza, se mai, un campo sterminato di applicazione. Ogni tristo capitolo della storia è diverso, e insieme ne richiama un altro. Srebrenica richiamò Auschwitz. Forse si richiamerà Srebrenica per Gaza, contro Auschwitz. E’ tutto umano, troppo.