Un accordo, come quello che Trump ha siglato con il Regno Unito, permetterebbe di mettere fine all’enorme incertezza emersa dalla guerra commerciale, ed evitare nuovi dazi su farmaci e semiconduttori. Si potrebbe così tornare a concentrarsi sulle sfide che attendono il continente
La verità, sui dazi americani, è che all’Unione europea converrebbe non fare nulla: trovare un accordo per stabilizzare le tariffe Usa attuali al 10 per cento, e non imporre contromisure. Trump si è dimostrato sufficientemente malleabile e convincibile con accordi vaghi e poco vincolanti, che non richiedono impegni eccessivi. Come quello appena firmato in ambito Nato per l’aumento dell’obiettivo di spesa militare al 5 per cento (che in realtà è al 3,5 per cento e sarà rivisto nel 2029, proprio l’anno in cui Trump non sarà più alla Casa Bianca).
Questo orientamento appare diffuso in molte capitali europee. A Roma e Berlino certamente, mentre Parigi pare convinta di poter ottenere condizioni più favorevoli con un approccio più muscolare, rispondendo con contro-dazi sulle merci made-in-Usa. Ma Italia e Germania sanno bene quanto rischierebbero in caso di guerra commerciale aperta: già oggi risultano tra le economie più colpite, con tariffe medie rispettivamente del 5 e del 6 per cento. La Francia invece ha un’esposizione inferiore ai dazi americani, e ad aprile ha subito tasse alla dogana medie del 3 per cento.
Fino a due mesi fa la posizione francese era dominante anche a Bruxelles: rispondere colpo su colpo, senza indietreggiare. Solo così Trump si sarebbe convinto a negoziare con l’Unione europea, si pensava: essere rispettati, dimostrando di essere duri quanto lui. La Commissione aveva preparato un pacchetto di contromisure per rispondere alle mosse americane, che sarebbero dovute entrare in vigore il 15 aprile. Per iniziare, i dazi europei avrebbero dovuto colpire 26 miliardi di euro di merci americane.
Ma i governi europei da allora hanno potuto assistere all’escalation tariffaria con la Cina. I dazi reciproci in quel caso sono arrivati quasi al 150 per cento, un embargo di fatto, e le tensioni si sono estese anche ai visti per gli studenti cinesi e all’esportazione di terre rare verso gli Usa. E l’accordo siglato la settimana scorsa per mettere fine all’inasprimento ha mantenuto comunque dazi significativi: il 30 per cento per le merci cinesi che vengono esportate negli Usa, il 10 per cento per quelle americane comprate dai cinesi. Tariffe doppie rispetto a quelle in vigore prima del secondo mandato del presidente.
La lezione cinese ha aperto gli occhi: una guerra commerciale con Trump rischia di generare forti tensioni e instabilità, a cui si potrebbe mettere fine con accordo che prevederebbe un livello di dazi difficilmente inferiori al 10 per cento attuale. Ecco perché oggi gli europei hanno abbandonato la proposta di azzeramento reciproco delle tariffe, già rifiutata aspramente dagli emissari americani. E invece si preparano ad accontentarsi del livello attuale, senza prevedere ritorsioni significative: un compromesso impensabile fino a due mesi fa.
I dazi americani al 10 per cento si traducono per l’Europa in un rallentamento della crescita di circa 0,1 punti percentuali, secondo le stime del Kiel Institute for the World Economy. A essere colpita più duramente sarebbe la Germania (-0,2) mentre Italia e Francia perderebbero 0,07 punti di crescita. Circa un decimo della variazione prevista del pil per il 2025. Un effetto negativo probabilmente accettabile, soprattutto se confrontato con le premesse iniziali. Se l’Unione europea dovesse rispondere con propri dazi sulle merci americane, gli effetti sul pil sarebbero più accentuati: le tariffe infatti tendono spesso a danneggiare maggiormente chi le impone.
Un accordo, come quello che Trump ha siglato con il Regno Unito, permetterebbe di mettere fine all’enorme incertezza emersa dalla guerra commerciale, ed evitare nuovi dazi su farmaci e semiconduttori. Si potrebbe così tornare a concentrarsi sulle sfide che attendono il continente: a partire dal rilancio della competitività perduta, per evitare che il rapporto Draghi rimanga l’ennesimo piano dimenticato in un cassetto di Bruxelles.