Non solo Conte e Salvini, anche un bel po’ di classe dirigente, industriale e finanziaria, è contraria a che l’Italia, con l’Europa e la Nato, investa di più in difesa e sicurezza. Tre motivi, opinabili, che hanno rafforzato negli anni contrarietà e indifferenza
In Italia non ci sono solo Conte e Salvini, in maniera esplicita due terzi della sinistra e in ambiguo silenzio buona parte della ex “destra sociale”, a pensare che il riarmo dell’Europa e dei membri europei della Nato sia un errore: una trappola temporanea cui sottrarsi con astuzie e dilazioni, non una necessità dettata dai valori, dalla difesa delle libertà, dalla necessità di non consegnarsi come imbelli soccombenti a tiranni sanguinari che praticano la mera via della forza per opprimere e sopprimere ogni dissenso, invadere e sottomettere paesi confinanti, destabilizzare e indebolire chiunque in occidente creda ancora che i nostri valori di civiltà, stato di diritto e separazione tra poteri, welfare e inclusione, non siano effimeri slogan di un’epoca alle nostre spalle ma ormai tramontata. A pensarla così sono una buona fetta degli italiani, e questo spiega perché Salvini e Conte provino a cavalcarla per minare le leadership attuali di sinistra e destra. Ma c’è anche un bel po’ di classe dirigente, industriale e finanziaria, che punta sul fatto che alla fine il conflitto in Ucraina si congelerà e torneremo ad acquistare il gas di Putin a prezzi meno cari del Gnl americano, a investire ed esportare in Russia. E che alla fine Trump durerà sì ancora un po’, ma magari dopo gli Usa torneranno molto più accomodanti, sia sui dazi sia sulle spese militari.
All’indomani del vertice Nato che ha segnato comunque una svolta epocale, perché Trump è riuscito a strappare a tutti i paesi membri dell’Alleanza l’impegno a far salire le spese per la difesa pari al 5 per cento del pil entro il 2035, fatto di un + 3,5 per cento per la difesa e di un altro +1,5 per cento per la sicurezza, il quadro che ci troviamo di fronte in Italia obbliga però a porsi delle domande serie. Al di fuori delle polemiche della politica quotidiana e delle sue baruffe all’interno di sinistra e destra, quali sono le maggiori questioni di fondo che plasmano e ispirano la diffusa contrarietà al riarmo, e la crescente indifferenza ai valori che lo ispirano, che son l’esatto contrario di ambizioni e tentazioni imperialiste di divenire anche noi fautori della guerra come arma imperialista? Negli ultimi 40 mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, abbiamo imparato che la risposta a questa domanda non può essere solo quella “morale”, per così dire. Cioè la necessità epocale di impedire la scomparsa dell’Ucraina sotto i missili di Putin, di fermare l’espansione putiniana foglia dopo foglia del carciofo grande-russo che ha in testa da anni e anni senza nasconderlo, di impedire che l’Iran diventi anche una potenza nucleare, dopo aver impiccato migliaia di iraniani e alimentato il terrorismo in mezzo mondo e non solo contro Israele.
Proviamo allora a identificare almeno alcuni, dei fenomeni reali che hanno rafforzato negli anni contrarietà e indifferenza. Ce ne sono almeno tre, uno che in effetti è valoriale, il secondo e il terzo invece discendono da condizioni reali, all’apparenza questioni tecniche ma in realtà hanno l’effetto di potenti freni. Il primo, citatissimo e su cui non bisogna spendere molte parole, è la rilassatezza che ha impregnato le società europee dopo la caduta del Muro. Che ci ha portato allo stesso errore commesso dalla filosofa francese Simone Weil nell’estate del 1940, quando il Terzo Reich si apprestava a piegare in poche settimane la Francia. In quelle settimane di fuoco la Weil scrisse un saggio sull’Iliade, e trascinata dagli eventi travisò in maniera profonda il grande poema omerico. “L’unico suo vero soggetto – scrisse – è il prepotere della forza, verso la quale una sorta di inesprimibile grazia ci precipita e ci rapisce”. Non è così per l’Iliade, che al contrario dedica centinaia e centinaia di versi alle follie della guerra e ai dubbi di ciascuno degli eroi, da Achille a Diomede a Ettore, sulle follie della nebbia omicida con cui Ares ottenebra le menti umane. E non è così nella storia dell’umanità: quando il prepotere della forza diventa così sinistro da mirare all’alternativa morte-sottomissione o sterminio, l’umanità è progredita solo nel caso in cui si sia trovata la determinazione di resistere e sconfiggerlo. Non solo noi abbiamo smesso da tempo di leggere e capire Omero.
Abbiamo presto dimenticato la follia etnica serba che portò negli anni Novanta alle sanguinose stragi nella ex Jugoslavia. E abbiamo introiettato che i fallimenti dei cambi di regime sulla punta delle baionette occidentali, in Iraq e Afghanistan, ci devono indurre a un irenismo totale, e chissenefrega di ucraini e iraniani, georgiani e moldavi, curdi e armeni, uiguri e taiwanesi. Non sono fatti nostri. L’eroe è Chamberlain che diceva sì a ogni annessione di Hitler credendo di evitare la guerra all’impero britannico, non Churchill che si mise da solo in campo contro Hitler, e fu capace di accettare due anni di ingenti perdite e sconfitte, prima della discesa in campo degli Usa dopo Pearl Harbor. È stato chiamato “dividendo della pace”, quel che fece scendere le spese per la difesa in Europa dopo la caduta del Muro. E i più non vedono ragioni per rinunciarci. Non ci riguardano né le stragi di civili perpetrate da Putin in Ucraina, né quelle perpetrate dagli agenti dell’Iran. Esattamente come non ci riguardavano gli assassini domestici ed esteri dei dissidenti russi, fossero oppositori politici e giornalisti, né le impiccagioni di massa ordinate dal regime iraniano, che continua a essere presentato come un regime teocratico ma in realtà vede al comando del paese, della sua economia e rete terroristica, l’ala militare dei pasdaran Guardiani della rivoluzione. Per superare questo primo fattore serve un’intensa azione politico-culturale che durerà anni, inutile illudersi.
Ma non c’è solo questo. Passiamo all’intreccio tra due questioni apparentemente “tecniche” molto forti non tra gli italiani, ma tra le cosiddette classi dirigenti. Due questioni che insieme rafforzano la tendenza alla dilazione del riarmo italiano, evitando di attaccarne esplicitamente le ragioni ma nella maltaciuta speranza di evitarlo. La prima questione è lo sbilancio dello stato italiano, sottoposto a procedura di rientro sotto il 3 per cento di pil della spesa reale dopo la vertiginosa vetta di debito pubblico che ci è costata la più grande truffa della finanza pubblica dacché l’Italia esiste, cioè il Superbonus edilizio al 110 per cento. Giorgetti e Meloni si sono meritoriamente impegnati a smontare il Superbonus ma, essendo sotto programma di rientro coatto del deficit, rifiutano di avvalersi già in questo 2025 della clausola di salvaguardia concessa dalla Ue a favore di spese aggiuntive per la difesa. Poiché, non volendo toccare un solo euro di spesa corrente, quella spesa aggiuntiva sarebbe comunque a debito, un debito pubblico che nelle previsioni del governo cresce ancora per tre anni prima di cominciare a scendere.
Ed ecco che il governo attuale acchiappa i due classici piccioni con una sola fava. Col pieno consenso dei media italiani – sin qui zero voci critiche – il non voler toccare un solo euro di spesa corrente viene spacciato come difesa del welfare, rispetto alle pessime armi che ci si vorrebbe imporre. Al contrario, non voler toccare la spesa corrente significa non voler affrontare le millemila distorsioni che essa produce, a cominciare proprio dal nostro welfare che imbarca acqua sempre più a tonnellate. Secondo, è ovvio che sospendere l’attuazione dell’impegno assunto in sede Nato sino al 2027 significa bellamente lasciarlo in eredità alla prossima legislatura, e chi vivrà vedrà. Il classico gioco italiano a rimpiattino. Condito naturalmente dal fatto che per noi spese della difesa aggiuntive sono anche quelle della lotta ai migranti, e magari perché no anche quelle del Ponte sullo Stretto. Del resto il governo è salito in una sola notte dall’1,4 per cento di spese per la difesa al 2 per cento del pil non attraverso stanziamenti aggiuntivi, ma attraverso artifici contabili. Quindi perché non riprovarci in ancor più grande stile? A questa prima questione se ne somma un’altra, anch’essa annidata nelle pieghe del bilancio pubblico, in particolare proprio sulla Funzione Difesa del bilancio. Che va distinta dal Bilancio del ministero della Difesa, che nel 2025 ammontava a 29,1 miliardi (ai soli Carabinieri sono andati 7,8 miliardi). E’ sul più ristretto bilancio della Funzione Difesa che vanno fatti conti dell’aumento di spese per la difesa. La Funzione Difesa nel 2024 ha visto assegnarsi 20 miliardi e 848 milioni di euro, di cui 11 miliardi e 123 milioni per il personale, 2 miliardi e 222 milioni per l’esercizio, 7 miliardi e 503 milioni per l’investimento. Questi importi sono stati integrati nel 2024 da 1 miliardo e 180 milioni per le missioni internazionali delle Forze armate, e 1 miliardo e 808 milioni di euro di fondi del Mimit per i programmi della difesa ad alto contenuto tecnologico. Mentre nel Bilancio della Difesa le spese per personale continuano a sfiorare il 60 per cento del totale, nella Funzione Difesa la percentuale è scesa a poco più del 50 per cento, riguardando solo la spesa per i militari in servizio e non per le pensioni a carico del Bilancio Difesa.
La discesa della spesa per personale della Funzione Difesa è stato perseguito con una discesa anno dopo anno dei militari in servizio, fino a poco più di 160 mila unità. Ma gli Stati maggiori negli ultimi tre anni hanno diverse volte detto al Parlamento che questa strada va invertita, servono 20-30 mila uomini in più e una riserva addestrata di almeno 10 mila unità. Inoltre la spesa per personale della Funzione Difesa resta comunque troppo alta, se paragonata al 29,5 per cento in Francia, al 33 della Germania, al 43,9 della Spagna. E tutto ciò continua ad andare a detrimento della spesa per l’operatività delle Forze armate, cioè mantenimento dei sistemi d’arma e piattaforme, addestramento alle nuove tecnologie e scorte munizioni. Il ministro Crosetto per primo ha detto che “l’ipo-finanziamento del settore-Esercizio ha raggiunto livelli ormai insostenibili, incidendo in maniera importante sia sui livelli di efficienza dei mezzi e sistemi sia sulla possibilità di effettuare le attività addestrative necessarie”. Infine, demandare l’acquisizione di sistemi avanzati di difesa a fondi extra bilancio a carico del Mimit, come avviene da anni, eterna il problema del sottodimensionamento delle loro acquisizioni previste, mentre tecnologia, tattica e strategia bellica in pochi anni hanno fatto passi avanti da gigante. In tutto questo, ha aggiunto in Parlamento il generale Masiello, capo di Stato maggiore dell’Esercito, bisogna che la politica si interroghi se destinare ancora per anni 6.800 militari alle operazioni “Strade Sicure” e “Stazioni Sicure”, che sottraggono alla Difesa vera e propria personale per ben altro addestrato che per l’ordine pubblico, e centinaia di milioni di spesa.
La conclusione di questo secondo fattore è che per accrescere in maniera sostanziale le componenti di bilancio da destinare a esercizio e investimenti, senza i quali non saremo mai operativi come invece serve nel contesto Nato, occorre da parte politica un serio intervento di modifica di come vengono oggi allocate le risorse. Ad esempio via le pensioni militari dal Bilancio Difesa, con tutto che la previdenza militare è esentata dalla riforma Fornero, serve allora un fondo Inps ad hoc e lo sblocco di pensioni complementari, che ai militari sono oggi invece inibite. Serve una decisa razionalizzazione dei centri di spesa della difesa civile. E una diversa norma quadro sulle aree addestrative, limitatissime in Italia. Mentre nella Funzione Difesa vanno integrati i programmi di sviluppo e acquisizione pluriarma avanzati oggi affidati al Mimit. E via proseguendo. Perché la politica non ha mai avuto questa sensibilità manageriale? Semplice: perché dislocando la spesa altrove si abbassava agli occhi dell’opinione pubblica la spesa in difesa vera, e perché si tutelavano interessi elettorali invece che di una difesa efficiente.
Ed eccoci al terzo fattore, quello finale. Ai politici non sta troppo bene che oggi siano le imprese del comparto difesa a capire meglio di loro quanto bisogna fare. Noi europei abbiamo sempre più accresciuto l’acquisto di sistemi di difesa statunitensi: se paragoniamo il quinquennio 2015-19 con quello 2020-24, l’export militare Usa in Ue è salito del 233 per cento. Noi abbiamo 178 diversi sistemi d’arma primari rispetto ai 30 degli Usa, 17 tank diversi in servizio rispetto a uno degli Usa, 29 tipi diversi di cacciatorpediniere e fregate rispetto 4 degli Usa, 20 diversi cacciabombardieri rispetto a 6 in servizio degli Usa. Il riarmo europeo è innanzitutto un grande piano industriale: bisogna costruire grandi piattaforme europee integrate per sviluppo e produzione di droni e sistemi unmanned navali, terrestri e aerei; di sistemi di difesa antiaerea a breve, medio e lungo raggio; di messa in orbita e condivisione di satelliti per la difesa, la ricognizione e il coordinamento di sciami di droni; di velivoli di sesta generazione; di artiglieria contraerea e missili balistici a raggio intermedio come gli Iskander russi; di missili ipersonici; di ami aria-terra “oltre l’orizzonte”. E via proseguendo. Con un mucchio di intelligenza artificiale e Quantum Computing, dalla cyber security alle profondità marine fino allo spazio. Fino a essere anche capaci di una vera e propria deterrenza nucleare europea. Solo così ci possiamo rendere indipendenti rispetto ai meteorici cambi di opinione di un nuovo leader statunitense. Solo con questo industrial backbone comune possiamo avere forze armate europee perfettamente interoperabili e tecnologicamente up to date. Solo così possiamo diventare anche leader nell’offerta di sistemi di difesa avanzati a un numero crescente di paesi del mondo che non vogliono più dipendere né da Russia o Cina, né dagli Usa. E’ una grande sfida industriale, che i tedeschi stanno rapidamente capendo prima e meglio di noi italiani, che pure siamo il paese avanzato con la maggior percentuale di aumento delle vendite militari. Nel quinquennio 2020-24 rispetto a quello precedente il nostro export militare è salito del 138 per cento, rispetto al +11 della Francia e al +29 per cento della Spagna.
Leonardo guidata da Roberto Cingolani e Fincantieri da Pierroberto Folgiero stanno con decisione percorrendo questa strada, ventre a terra sulla costruzione di nuove joint internazionali con cui accrescere ordini e creazione di valore, dai caccia di sesta generazione alla missilistica, dai tanks ai droni, fino alle unità navali di superficie e profondità, manned e unmanned. Guardano al mercato europeo e a quello mondiale, non solo all’Italia e all’Europa. Rappresentano, con la loro rapidità ed efficienza, uno sprone rispetto ai ritardi e alla dilazione dei politici, ma anche tipiche della prudenza industriale italiana in altri settori. E alle cosiddette “classi dirigenti” italiane questa cosa non è detto affatto che piaccia davvero, al di là delle buone parole spese nei convegni.