L’eleganza del rischio. I Calibro 35 si tuffano nel passato per fare suonare il presente

“Exploration” è un disco manifesto contro l’ascolto usa e getta. Rapina musicale e dichiarazione d’amore al jazz, al funk e anche a una tv pubblica più audace. “Abbiamo sonorizzato Radio Rai, ora tocca alla sigla del TG1! L’AI ruberà il lavoro ai musicisti? Molte canzoni di Sanremo sembravano già scritte da un chatbot”

Non sparano e non indossano passamontagna. Eppure i Calibro 35, i banditi più eleganti della musica italiana, portano a compimento un altro colpo perfetto: rapire brani altrui, smontarli, ricomporli, restituirli vivi. Il loro nuovo disco si chiama “Exploration” (Record Kicks). Undici tracce. Otto riletture, tre inediti. Una galleria sonora che sembra concepita più da un curatore d’archivio che da una band. Invece sono loro: Tommaso Colliva, Enrico Gabrielli, Massimo Martellotta, Fabio Rondanini, e per l’occasione anche Roberto Dragonetti al basso. “Exploration” ha l’eleganza delle grandi rapine: curato al dettaglio ma suonato a mano libera, pensato come una dichiarazione d’amore – o come un sabotaggio affettuoso – di classici del jazz, del funk, con una buona carica nazional-popolare trafugata dalla tv anni Ottanta e Novanta. E come succede a pochi leggendari “ladri gentiluomini” tipo Lutring, sotto sotto, tutti fanno il tifo per loro.



A proposito di ladri: si dice che ci sia in giro qualcuno pronto a rubare il lavoro a tutti. Secondo l’ultimo studio della Confederazione internazionale delle società di autori e compositori, i ricavi derivanti dalla musica generata dall’AI aumenteranno dai 100 milioni del 2023 a 4 miliardi nel 2028. Entro quella data, si stima che il 20 per cento delle entrate verrà da questo settore. Insomma, se il compito di digerire e rimpastare l’esistente spetta alla macchina, che lo svolgerà sempre meglio, qual è il futuro per un gruppo che fa del furto con scasso di ritmi e melodie la sua cifra? “In fondo di che cosa si nutrono gli artisti?”, si chiede Massimo Martellotta. “Dei libri che hanno letto, dei film che hanno visto, della musica che hanno ascoltato. Li rielaborano e li fanno propri. Tutti riprendono dal proprio passato, non solo noi e non solo l’AI”. “E’ vero che a fare i Calibro 35 con l’intelligenza artificiale ci metti un attimo”, commenta Enrico Gabrielli. “Però siamo fuori dal core business del mercato: forse siamo facili da riprodurre ma non siamo l’epicentro dell’interesse commerciale. Questo ci rende la scheggia impazzita che potrebbe andare avanti ancora a lungo. Secondo me, il grosso dell’indotto commerciale che ci sarà con l’AI sarà molto legato alla forma canzone: testi e parole, qualcosa in cui la gente si identifica, quindi con un bacino economico piuttosto consistente”.



In effetti, solo qualche giorno fa, i quotidiani online pubblicavano una video-intervista impossibile con IAM, la prima cantante italiana creata con l’AI. Il suo brano artificial-pop “Pazzesco” è stato depositato in Siae e vorrebbe provare a scalare le classifiche delle hit estive. “Dipende dall’obiettivo, dalla meta. Per ora il computer riesce a fare cose a un livello piuttosto basso. Nel nostro caso c’è un continuo approfondimento, che mi sembra difficile poter replicare in automatico”, dice Fabio Rondanini. “I generi che tendono già alla standardizzazione sono più a rischio dei percorsi che privilegiano l’identità individuale e su quella investono e ricercano”, riprende Tommaso Colliva. “Non per fare polemica, ma veniamo da un Sanremo dove il 70 per cento delle canzoni non era scritto con l’intelligenza artificiale ma poteva esserlo!”.



“I primi a cui tremeranno i polsi saranno i producer, più che le band”, si aggiunge Enrico, a cui rispondono Massimo e Tommaso: “Bisognerà cambiare paradigma: da composer operativo diventerai curatore di una linea, persino di un’azienda con una sua linea musicale. Che dovrà essere ragionata e scelta, esattamente come noi scegliamo gli strumenti, le note, o come un producer sceglie i sample”. Martellotta poi solleva il tema della trasparenza: “Il pubblico che ascolta la musica fatta dai musicisti la ascolterebbe se sapesse che è fatta da AI? E dal vivo chi suona? Nel campo delle colonne sonore, per esempio, questa tecnologia può esserci di aiuto: nella musica funzionale va bene che un pezzo si riferisca a un immaginario forte e predefinito. Poi invece serve la specialità, la nuance, la via di mezzo. La differenza è anche nel processo creativo”.



A ben vedere, la differenza è tutta qui: l’intelligenza artificiale compone canzoni che si dimenticano in fretta, i Calibro 35 rianimano ricordi che non sapevamo di avere. Insomma, è una questione di metodo – o dovremmo dire di modus operandi? Il loro è semplice e pericoloso: è l’eleganza del rischio. Prendono pezzi già immortali e provano a farli ballare di nuovo. Senza ferire nessuno, ma riuscendo comunque a farsi notare. Come aggiungere un pizzetto alla Gioconda: se ci riesci, fai la storia. “Exploration” è il loro ready-made rettificato. Il punto non è il rimpasto del passato. Non è la nostalgia. E’ la riscrittura. Stavolta i nostri “ladri di stelle e di jazz” frugano in quel grande bacino culturale e popolare che ci ha cresciuti, spesso senza che neanche ce ne accorgessimo. Lo risuonano e ci fanno capire che non era solo intrattenimento: era linguaggio e corpo. Quando reinterpretano Piero Umiliani (“Discomania”, sigla cult di “90° Minuto”, il “Gassman Blues”, composto per “I soliti ignoti” di Mario Monicelli) o Roy Ayers (“Coffy is the Color”, blaxploitation in versione cibernetica col vocoder), lo fanno con la reverenza di chi sa che il passato non si ruba: si reincarna. “Exploration” è un disco registrato senza metronomo e con pochi fronzoli, quasi tutto live, al Sound Workshop di Roma: casa di Umiliani, appunto, e tempio laico della musica italiana, dove il suono respira. Il piacere di suonare insieme è il vero filo conduttore, la pulsazione segreta che tiene tutto in piedi. Un viaggio (scusate il cliché) che, come tutte le vere esplorazioni, parte prima nell’immaginazione. Salgari docet.


Spesso la musica strumentale viene definita “cinematica” per mancanza di parole. Ma del resto, già dal nome, il progetto Calibro 35 ha sempre unito l’immaginario noir à la Scerbanenco (“Milano Calibro 9”) ai 35 millimetri della pellicola. Questa volta, nel nuovo disco, fanno incontrare in un bar malfamato “Mission: Impossible” di Schifrin con il monoscopio Rai. Una fuitina del grande e del piccolo schermo, a cui riparare con un matrimonio in musica. Non c’è solo “Discomania” a trasportarci in una domenica italiana davanti alla tv (“Amici sportivi, buonasera!”) , ma anche “Jazz Carnival” degli Azymuth, sigla di “Mixer” di Gianni Minoli, trasformata in una corsa jazz-funk in cui chi sbaglia è perduto. O “Lunedì cinema” (Marco Castello, voce ospite, è un Lucio Dalla lieve e notturno), che diventa un omaggio a una televisione che si faceva surrogato della fantasia. E forse proprio i Calibro 35 sono il corrispettivo musicale di quel tipo di audacia nella tv popolare. “Anche noi in fondo siamo stati nazional-popolari. Abbiamo fatto la sonorizzazione di Radio Rai per qualche anno: eravamo la sigla del GR1, la sigla di Onda verde, di Meteo Radio, i sottofondi… Abbiamo sentito un pochino quell’odore di ‘Lunedì cinema’. Ora non ci resta che comporre la nuova sigla del TG1!” ride Massimo Martellotta. “Il campanello di Vespa!”, rilancia Tommaso, mentre a Fabio Rondanini piacerebbe suonare una sigla per “Report” “che è un po’ il ‘Mixer’ di oggi e ha lo stesso nostro livello di artigianato”.

“Lunedì cinema”, riprendono i quattro, “si inseriva in un periodo in cui la tv pubblica doveva fare cultura, informazione e divulgazione. Adesso al massimo c’è una forma di ricerca individuale oppure di algoritmizzazione del percorso con cui arrivi alle cose”. E torniamo un po’ a quanto detto sull’AI. “Oggi il grosso del potere è in mano a grandi network che guadagnano dalla divulgazione del contenuto, quindi puntano al prodotto che piace a tutti”, fa Colliva. “Lo abbiamo visto in alcune cose in cui siamo stati coinvolti, nel corso degli anni: più è grossa la tela, più sono i passaggi e le persone che possono dire qualcosa su quel contenuto. E più quello si annacqua. Diventa meno identitario, meno forte, ne smussa gli angoli. Da lì ad arrivare al politically correct è un attimo. Noi siamo fuori dai processi in serie, volti a generare il massimo rendimento possibile, nel minor tempo possibile, col minor sforzo possibile. Se avessimo voluto una vita comoda, non avremmo fatto i Calibro 35! Da diciotto anni facciamo una cosa volutamente e consciamente di nicchia. Tutto quello che vedo è volto a fare la musica che vende in questo momento, mica l’evergreen che nessuno capisce ora, ma che capirà tra vent’anni”.



E quale sarebbe? Difficile immaginare quali brani del 2020 saranno i classici del 2050. “Magari saranno i nostri. E questo sarebbe l’evidente segno del declino culturale!”, scherza Fabio. Enrico: “Ognuno di noi ha gusti e ascolti differenti. Io penso a un amico con cui ho studiato nel 1995: Francesco Filidei. Ora ha debuttato alla Scala di Milano con ‘Il nome della rosa’, opera lirica composta da lui per la regia di Damiano Michieletto. Attualmente è uno dei più importanti compositori viventi e sono sicuro che quello che ha fatto, come compositore di musica pura, resterà nei prossimi decenni. Si assocerà ai vari John Adams, Louis Andriessen”. Difficile indicare a livello globale tre, quattro cose che saranno dei classici. E in Italia? Per Enrico è “DIE” di Iosonouncane; per Fabio, “Andrea Laszlo De Simone verrà percepito come il Lucio Dalla dei nostri tempi”. Ma c’è un tema, che sviscerano Gabrielli e Colliva: è difficile scollarsi dai numeri. Sono le statistiche a fare sì che una cosa abbia o non abbia incidenza. Laszlo o Iosonouncane fanno un numero di ascolti infinitesimamente più piccolo di qualsiasi trapper che esce con un pezzo domani. Ma quel trapper che quest’anno è fenomeno di costume, l’anno prossimo potrebbe non esistere più. Insomma – sintetizzano i Calibro – “nella popular music ci sono gruppi e brani che rappresentano perfettamente un’epoca: ci sono i Righeira che sono la fotografia degli anni Ottanta. E poi ci sono invece musiche che trascendono con naturalezza, che si spostano avanti nel tempo, ma questo non lo puoi vedere se non a distanza di decenni. Oggi i numeri delle piattaforme ci dicono esattamente quante persone ascoltano un artista. Ma la canzone o il disco che tra vent’anni sarà ritenuto un classico di questa epoca non lo decidono i numeri. E ciò rende giustizia all’imprevedibilità dell’animo umano. Magari potrebbe diventarlo un brano che è stato completamente ignorato nell’epoca in cui è uscito. Ci sono casi come Nick Drake, che ha trovato successo solo dopo, ci sono meccanismi di riscoperta come quelli che abbiamo visto negli ultimi anni, da Sixto Rodriguez a Shuggie Otis, dalla fotografa Vivian Maier a ‘Running Up That Hill’, brano del 1985 portato alla ribalta tre anni fa da alcuni episodi di ‘Stranger Things’ su Netflix”.

Da sinistra: Fabio Rondanini, Enrico Gabrielli, Tommaso Colliva, Massimo Martellotta (foto di Chiara Mirelli)

Insomma, tutto può tornare, tutto può riscattarsi. E se domani scoprissimo che i veri classici erano proprio quei pezzi che oggi ascoltiamo di nascosto con le cuffiette e l’ansia di essere scoperti? Qualche guilty pleasure musicale ce l’abbiamo tutti, in fondo. Calibro compresi, che sognano addirittura di coverizzare senza vergogna alcuni brani. Enrico, con una certa soddisfazione, si prepara a sganciare la bomba. “Sto per dirlo. E’ forte, lo so”, minaccia, guardando i suoi complici. “I Rondò Veneziano di Gian Piero Reverberi, compositore e direttore d’orchestra della scuola genovese, arrangiatore per De André, Tenco, Paoli. Un genio che nei primi anni Ottanta ha preso i modelli della musica classica del Settecento barocco, ci ha messo un basso continuo, le batterie un po’ à la Jimmy Sax e l’ha reso pop e dance. Un’operazione milionaria, una roba mainstream gigantesca: la casalinga non aveva il disco di Mozart ma quello di Reverberi sì. Tra l’altro i Rondò Veneziano avevano questo immaginario sci-fi puro, nelle copertine e nei live c’erano i robot disegnati da Victor Togliani dai quali i Daft Punk poi hanno ripreso, insieme alla roba dei fratelli La Bionda. Il videoclip di ‘La Serenissima’, cartone animato nel quale una Venezia post-apocalittica viene salvata dal diluvio con una nave spaziale, è una roba strepitosa: immagine, musica e idea formidabili”. Mentre il sogno proibito di Massimo è fare “Cumbia 35: un disco dei Calibro nel Sud del mondo. Dico cumbia perché mette insieme il groove a tutti gli echi che arrivano sia dall’Africa sia dal Sudamerica. Ma anche dal Napoletano, se vuoi”. Però, sottolinea la banda, loro non lavorano partendo da un genere: il poliziottesco, la fantascienza, il porno o il film d’avventura. “Siamo più focalizzati sul metodo con cui si fanno le cose che sul punto di arrivo. Per dire, fare un disco unplugged; farlo con strumenti acustici o al contrario, farne uno tutto con strumenti hardcore elettronici. E poi magari le varie ispirazioni e narrazioni sono ottime scuse per addentrarci in metodologie diverse”. Eccolo, il “metodo Calibro”. E sembra avere funzionato bene anche in “Exploration”. Forse il vero colpo grosso del disco sono i pezzi originali. “Reptile Strut”, è l’apertura perfetta, “Pied de Poule” è languida, un B-movie suonato al rallentatore, “The Twang” parte western (Tarantino, dove sei?) e finisce in psichedelia da sezione fiati.



“Abbiamo una grossa stima reciproca,” raccontano, “e abbiamo accettato molto tranquillamente che spesso si fa prima a realizzare l’idea di un altro e poi decidere se funziona”. Un metodo apparentemente democratico, che però – come precisa qualcuno con un sorriso – “è più uno scartare cinquantamila possibilità”. Le idee, in compenso, non mancano. E raramente vanno tutte nella stessa direzione. Per capire la varietà dell’universo mentale in cui si muovono, basta chiedere loro cosa immaginerebbero se “Exploration” fosse un’installazione museale: “Una torre di Babele”, per Fabio. “Una scultura di Jean Tinguely, una macchina inutile”, per Tommaso. “Un tubo catodico, un televisore che manda una VHS un po’ sgranata”, dice Enrico, mentre a Massimo viene in mente “qualcosa di Jeff Koons: oggetti iper pop trasfigurati”.



Anche sul palco non si va in cerca di gerarchie troppo nette. “Forse Fabio è il vero frontman,” ammettono con serietà solo apparente, “lo capiamo dagli applausi”. Il punto è che “il nome Calibro 35 è più forte dei singoli nomi”, e questo vale doppio quando ciascuno di loro ha un’agenda parallela piena di altri progetti – tra band, colonne sonore, produzioni. “Siamo felicemente poligami”, dicono con orgoglio. “E’ una linfa: torni che hai scaricato delle tossine e sai che quello che fai nei Calibro 35 è una cosa a sé”. “Non siamo un collettivo, siamo un’équipe di lavoro”, puntualizza Fabio Rondanini. E l’équipe ha visto cambiare, poco a poco, anche il pubblico. “La fetta più grossa dei nostri ascoltatori su Spotify ha meno di 35 anni. Quindi quando siamo nati, ne avevano 15”, osserva con precisione statistica Colliva. “Certo, il pubblico dei concerti è un’altra cosa, ma alla fine si accumula: c’è chi è arrivato al primo disco, chi al secondo, chi più tardi. E’ bello vedere rapporti duraturi che si creano. Io sto spesso al mixer e ormai vedo tanti papà con la maglietta dei Calibro e i bambini sulle spalle. Magari dieci anni fa erano lì con una birra in mano e senza figli”. “Di sicuro non hanno conosciuto la compagna a un nostro concerto”, ironizza Fabio. “Però se penso a certi gruppi a cui puoi dire una cosa del genere, almeno con noi la ragazza al concerto ce la puoi portare. Si diverte pure. Non facciamo una roba così ostica”. E per mettere il punto, arriva anche il dato, sempre da Tommaso in veste di ragioniere: “Il 48 per cento dei nostri ascoltatori su Spotify è donna”, dice con la soddisfazione di chi ha appena chiuso bene un bilancio.

Insomma, la musica cambia. I suoni si dematerializzano, le idee diventano dati, le melodie si scrivono da sole – o così ci vogliono far credere. Ma i Calibro 35 fanno il loro gioco da artigiani, con l’aria di chi sta sempre un passo avanti, anche quando guarda indietro. Continuano a muoversi nel sottobosco sonoro come ladri di mestiere. Di quelli che non scappano col bottino, ma lo lasciano in bella vista: lucidato, ristrutturato, reso più prezioso di prima. Non ci lasceranno dormire tranquilli. Ma forse ci faranno sognare un po’ meglio.

  • Enrico Cicchetti
  • Nato nelle terre di Virgilio in un afoso settembre del 1987, cerca refrigerio in quelle di Enea. Al Foglio dal 2016. Su Twitter è @e_cicchetti

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