Il presidente americano al vertice parla di vittorie e se le attribuisce tutte, dal cessate il fuoco tra Israele e Iran alla promessa del 5 per cento del pil per la Difesa. L’incontro di cinquanta minuti con Zelensky e le parole mai pronunciate prima sulla “battaglia coraggiosa” dell’Ucraina
L’Aia, dalla nostra inviata. Il capo della Casa Bianca, Donald Trump, ha concluso il vertice della Nato 2025 dicendo di essere soddisfatto. “Trump era davvero di buon umore”, racconta chi ha assistito a molti degli incontri con il presidente americano. E all’origine del buon umore, ostentato anche alla conferenza stampa in cui è comparso con il segretario di stato Marco Rubio e il capo del Pentagono Pete Hegseth, c’è il cessate il fuoco tra Israele e Iran. “Abbiamo ottenuto una vittoria lì – ha detto Trump, riferendosi al medio oriente – e poi siamo venuti qui e ne abbiamo ottenuta un’altra”. E quando Trump parla di vittorie se le attribuisce tutte e afferma che senza di lui i paesi membri della Nato non sarebbero mai arrivati a promettere il 5 per cento. Il risultato sulle spese per la Difesa, che era l’obiettivo principale del summit, glielo attribuiscono anche gli altri leader internazionali, che gli sono ronzati attorno per fare in modo che tutto fosse di suo gradimento.
Anche la dichiarazione finale è stata scritta in modo che piacesse a Trump: quattro paragrafi, quattrocento parole in tutto. Per avere un termine di paragone: due anni fa a Vilnius i paragrafi erano novanta, a Washington, lo scorso anno, erano trentotto. La Nato sta facendo uno sforzo di sintesi, ma la necessità di ottenere l’attenzione di Trump lo ha accelerato. Tutto è stato snellito per piacergli. “Temevano due fallimenti – racconta al Foglio un collaboratore del segretario generale dell’Alleanza, Mark Rutte – che ci fossero problemi con il 5 per cento e con Zelensky”. Prima di comparire in conferenza stampa per fare l’elenco delle sue vittorie, Trump ha incontrato il presidente ucraino, che si è presentato all’Aia in giacca nera, la tenuta del leader di guerra nei contesti istituzionali. Zelensky avrebbe voluto incontrare Trump al vertice del G7 di due settimane fa, ma il presidente americano volò via in anticipo per la guerra tra Israele e Iran. Un secondo appuntamento mancato non sarebbe stato un fallimento soltanto per Zelensky, ma per l’intero summit. I paesi membri hanno prodotto un comunicato in cui la Russia viene definita una minaccia nel lungo periodo – Rutte ha dovuto chiarire che se lo è nel lungo periodo, vuol dire dire che lo è anche nell’immediato – non è stata inserita la parola “aggressione” che a Trump non piace, ma il paragrafo dedicato all’Ucraina è molto chiaro ed enuncia che gli alleati sono impegnati nel fornire supporto duraturo a Kyiv, “la cui sicurezza contribuisce alla nostra e, a tal fine, includiamo i contributi diretti alla difesa dell’Ucraina e alla sua industria della Difesa nel calcolo della spesa per la Difesa per gli alleati”. In questo senso il 5 per cento è stato un risultato anche agli occhi di Kyiv.
L’incontro tra Zelensky e Trump è durato circa cinquanta minuti, molto di più di qualsiasi altro incontro tra i due. Il presidente ucraino, come gli altri leader, ha impersonato il suo ruolo: si è fatto vedere nei momenti giusti, non ha voluto parlare con la stampa, ha aspettato che fosse Trump a dare il segnale. Il segnale è arrivato e Zelensky ne ha approfittato per affrontare l’argomento che rimane al di fuori delle mire di Trump: future sanzioni alla Russia. Il presidente americano ha annunciato che presto avrà un nuovo colloquio con Putin e che l’incontro con Zelensky è stato “decisamente migliore rispetto a quello nello Studio ovale”. A fine febbraio, Trump e il suo vice J. D. Vance tesero un’imboscata al presidente ucraino, che venne mandato via dalla Casa Bianca senza avere l’opportunità di parlare neppure di quella che in quel periodo era l’ossessione americana: l’accordo sui minerali. I due si videro poi nella Basilica di San Pietro per pochi istanti, gli ucraini provarono a organizzare un secondo incontro una volta finita la funzione per il funerale di Papa Francesco, ma Trump se ne andò in fretta per festeggiare il compleanno di sua moglie Melania. Forte del successo in medio oriente, il capo della Casa Bianca ha ammesso che la situazione in Ucraina è più complicata di quello che pensava in campagna elettorale. Ha parlato dei bombardamenti su Kyiv, ha provato a ricordarsi i nomi di altre città ucraine attaccate, ma non ci è riuscito. Ha definito gli ucraini coraggiosi e ha pronunciato su Zelensky parole mai dette prima: vuole far finire la guerra, “sta combattendo una battaglia coraggiosa”. Le parole si cancellano in fretta, ma c’è un dato che aiuta a trattenerle: questo summit al presidente americano è piaciuto davvero. Gli sono piaciuti i Paesi Bassi, gli alberi (ha detto che ne vorrebbe portare via alcuni). Gli sono piaciuti i leader internazionali: “Sono venuto qui perché era una cosa che dovevo fare, invece ho visto dei leader che si sono battuti per la sicurezza dei loro paesi e hanno bisogno degli Stati Uniti”. L’articolo 5, sempre a parole, è salvo. L’Ucraina ancora combatte da sola, ma oggi Trump ha anche aperto alla possibilità di aiuti militari americani: “Putin deve fermare la guerra”.
Myroslava Petsa, una giornalista di Bbc Ukraine, gli ha domandato se fornirà i Patriot a Kyiv. A un certo punto è stato Trump a rivolgerle molte domande: di dove sei? Dove vivi? Dov’è tuo marito? Petsa vive in Polonia con i due figli. Suo marito presta servizio come soldato. “Digli che gli voglio bene”, ha detto il presidente americano. Forse oggi Trump ha capito chi sono gli ucraini, dove stanno, per cosa combattono. Forse il teatro che gli è stato costruito attorno, con Rutte che lo elogia e lo chiama “daddy”, serviva a fare in modo che capisse anche questo.