Mentre Khamenei appare sempre più fragile e il regime prepara la transizione, la Repubblica islamica rischia di passare da teocrazia a dittatura militare, con una leadership pasdaran ancora tutta da decifrare
Anche nel bunker la scenografia somigliava a quella di sempre, la quinta di tende, la bandiera da un lato e la consueta immagine sbiadita del padre della rivoluzione Ruhollah Khomeini dall’altra, ma nelle due occasioni in cui si è mostrato, Ali Khamenei è apparso diverso, più fragile, più stanco, come se anni di malattie vere e verosimili gli si disegnassero sul volto tutte insieme. In altre circostanze l’entourage lo avrebbe preservato agli sguardi, del resto una delle cifre stilistiche di Khamenei è proprio l’assenza, ma questi non sono giorni normali e il tema della successione da scenario futuribile ha iniziato a essere presentato come un piano bello e pronto, come a dire quale che sia il destino terreno della Guida suprema, la continuità della Repubblica islamica è garantita.
Eppure, proprio l’accelerazione impressa dalla guerra, spinge molti osservatori a ritenere che il futuro del regime potrebbe giocarsi più fuori che dentro al bunker di Lavizan. Lo ha scritto l’Economist descrivendo lo smottamento epocale che sta neutralizzando il ruolo dei mullah in favore dei pasdaran, e sembrano indicarlo anche le indiscrezioni che arrivano proprio dalla città santa di Qom, dove i grandi ayatollah si interrogano sull’inaccessibilità di Khamenei, un’inaccessibilità tanto più dolorosa in considerazione del fatto che, nel frattempo, la Guida suprema parrebbe mantenere un filo diretto con i pasdaran. La lunga cavalcata dei Guardiani della rivoluzione, iniziata nelle trincee della guerra Iran-Iraq, potrebbe infine raggiungere il cuore del sistema khomeinista. La transizione da teocrazia a dittatura militare sarebbe vicina, ma se transizione sarà bisogna ancora capire da chi a chi. Perché in questi dodici giorni, l’élite pasdaran è stata squassata dalla guerra. I veterani, amici e compagni d’armi del famigerato Qassem Suleimani sono caduti come birilli. Uomini chiave come Hossein Salami, Amir Ali Hajizadeh e Hossein Bagheri, solo per citarne alcuni, uomini partiti dal niente, nati alla fine degli anni Cinquanta o dei primi anni Sessanta, rivoluzionari della prima ora, forgiati dall’ideologia e dai campi di battaglia, senza i quali è difficile immaginare una leadership alternativa.
“E’ una nuova generazione impaziente e meno dogmatica”, quella che dobbiamo aspettarci suggerisce l’Economist, una generazione più dura e ancora più incline all’oltranzismo. Ma la verità è che eliminata la prima linea, nessuno conosce davvero i protagonisti della seconda. Come ha osservato Kylie Moore Gilbert in un articolo uscito nel 2024 sull’Atlantic, le logiche secondo le quali si avanza di grado nella Repubblica islamica sono opache e poco hanno a che vedere con il merito. “Se non credi nel sistema (o se non se sei bravo a fingere di esserlo), se non conosci un membro della guardia che possa garantire per te, non hai speranza di diventare nemmeno un’umile guardia carceraria(…)”. Se questi sono i presupposti, può accadere che assurgano a ruoli di rilievo personaggi di modesta caratura che avanzano a forza d’inerzia, e che invece persone più abili possono essere marginalizzate per via di una qualche macchia nel curriculum rivoluzionario. La selezione è determinata dall’adesione all’ortodossia khomeinista, e pazienza se la scrematura non prevede barriere all’ingresso nei confronti di ragazzi incompetenti che invece che nelle trincee hanno compiuto il loro cursus honorum imbambolati davanti a serie come “Fauda” o “Homeland”.
Da dove ripartire allora? Alcuni avanzano il nome di vecchie glorie come l’ex sindaco di Teheran Mohammad Bagher Ghalibaf o del consigliere di Khamenei Ali Shamkhani, altre fonti indicano il nome di Ali Fadavi, il vicecomandante pasdaran che si definisce impaziente di vendetta insieme a tutto il corpo dei Guardiani della rivoluzione e agli alleati del fronte della resistenza. Ma nel vuoto provocato dall’eliminazione delle vecchie leve, quasi nessuno ha l’ardire di nominare le nuove. Di fatto, la seconda linea resta un’incognita.