All’Aja il presidente turco equipara Netanyahu a Hitler. Ma l’indebolimento di Teheran, la cessazione delle sue ambizioni nucleari e la definitiva fuoriuscita delle Guardie della Rivoluzione dal quadrante siriano restano – almeno in parte – obiettivi condivisi con lo stato ebraico
Come avvenuto più volte a partire dal 7 ottobre, durante l’operazione israeliana Am Kelavi (Leone che si erge) il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha attaccato frontalmente il primo ministro Benjamin Netanyahu. Erdogan, arrivato ieri al vertice della Nato all’Aia, ha equiparato Netanyahu ad Adolf Hitler e non ha perso occasione per condannare gli attacchi alla sovranità iraniana anche dopo il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. I turchi temono che un allargamento del conflitto possa compromettere il proprio posizionamento a livello regionale e ridurre il proprio spazio di manovra. Per Ankara, il peso della recente escalation ha diverse chiavi di lettura. La guerra a Gaza e le sue diramazioni rappresentano uno dei principali assi di frizione nella politica interna, come dimostrato dai risultati delle elezioni locali del 2024. In quell’occasione, lo scontento dell’elettorato islamista e conservatore rispetto alla posizione, percepita come troppo morbida, del governo turco sull’offensiva israeliana nella Striscia ha causato un’emorragia di voti verso altri partiti islamisti, contribuendo alla prima, vera sconfitta elettorale dell’èra Erdogan.
Per recuperare terreno, il governo ha da allora impostato una narrazione imperniata sullo scontro verbale con la leadership israeliana. Tuttavia, la bellicosità delle dichiarazioni, anche le più recenti, serve soprattutto a celare una dimensione nascosta: le relazioni tra Israele e Turchia – così scomode a livello politico – non si sono mai interrotte, e sopravvivono grazie a canali consolidati. Testimonianza di questo sono i dialoghi discreti avvenuti a Baku, in Azerbaigian, partner strategico per entrambi i paesi, e la successiva attivazione di una hotline in Siria, ideata per evitare incidenti tra le rispettive forze armate presenti sul terreno. Anche sul piano commerciale, nonostante la sospensione totale degli scambi decisa unilateralmente da Ankara, i legami non si sono mai spezzati. Le esportazioni turche verso Israele proseguono, seppure in forma indiretta, sfruttando le triangolazioni con la Cisgiordania e altri intermediari regionali.
Piuttosto, Ankara teme che un conflitto allargato all’Iran possa provocare una nuova ondata di profughi attraverso i suoi confini. Più di dieci anni fa, milioni di siriani in fuga dalle bombe di Assad trovarono rifugio in Turchia. Oggi però, dopo anni di crisi economica e spirale inflazionistica, la questione dei profughi siriani è diventata un onere politico insostenibile per il governo in crisi di consensi. L’Unhcr – l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati – è pronta ad aiutare la Turchia ma, anche se al momento l’emergenza sembra essere stata scongiurata, Ankara ha rafforzato le difese lungo il suo confine sudorientale.
L’indebolimento di Teheran, la cessazione delle sue ambizioni nucleari e la definitiva fuoriuscita delle Guardie della Rivoluzione e dei loro proxy dal quadrante siriano restano però – almeno in parte – obiettivi condivisi con lo stato ebraico. Alla Turchia, che a Damasco ha sostituito russi e iraniani nel ruolo di kingmaker, il “lavoro sporco” di Israele fa comodo, soprattutto alla luce del processo di pace avviato con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Consapevole della volontà di diversi attori esterni, tra cui l’Iran, di strumentalizzare la questione curda per rallentare l’integrazione della Siria nella sfera di influenza turca, Ankara ha avviato con il Pkk un processo di pacificazione che ha portato allo scioglimento del gruppo.
E’ questa ambivalenza strategica a dettare la linea dei turchi. Per qualche giorno, Ankara ha anche sperato di potersi ritagliare un ruolo da mediatore, sulla falsariga di quanto già sperimentato nel conflitto tra Russia e Ucraina. Erdogan ha tentato di mettere iraniani e statunitensi intorno al tavolo dei negoziati a Istanbul, con il tentativo naufragato davanti all’irreperibilità della Guida suprema Ali Khamenei. Il manifesto sostegno di Erdogan a Teheran sembra essere più simbolico e rivolto alla propria base elettorale piuttosto che una scelta strategica coerente. Il calcolo non può che tener conto anche di quelli che saranno i nuovi contorni regionali: la Turchia, che per anni ha delineato la propria autonomia strategica agendo da pivot tra i vari schieramenti regionali, deve ora adattarsi a un nuovo ordine. Il tacito favore mostrato da attori come l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi uniti nei confronti dell’iniziativa israeliana – di nuovo, il “lavoro sporco” – segna il consolidamento definitivo degli Accordi di Abramo. Dell’Asse della resistenza, smantellato pezzo per pezzo da Israele, a oggi resta ben poco.