Alla fine la polemica sulle nozze del fondatore di Amazon è una questione di soldi: voler stabilire come debbano essere usati quelli altrui, anziché essere liberi di decidere come usare i propri. Ma invece di chiedere che gli altri paghino di più, sarebbe prereribile voler pagare di meno noi
Pagare le tasse è la mia principale attività. In quanto dipendente statale, ho una ritenuta automatica mensile sullo stipendio, cui si aggiunge la tassazione calcolata sul cumulo dato dall’aggiunta di introiti extra, da versarsi in una rata a luglio, una ad agosto, una a settembre, una a ottobre, una a novembre e una a dicembre, quando verso anche l’acconto sui presunti guadagni dell’anno successivo – altro che stigmatizzare il gioco d’azzardo – dopo aver distribuito le varie mance sparse qua e là, dalla tassa sui rifiuti al bollo auto. Capirete che, con tutte queste spese, sono costretto a lavorare sempre di più, ottenendo il risultato di pagare ancora più tasse, oltre a ricavare un profondo senso di colpa dovuto alla sensazione che, se schiattassi e non potessi più versare un euro, a quanto pare l’Italia fallirebbe. Compiango la mia commercialista, alla quale arreco tutto questo disturbo, nonché i produttori di calcolatrici, che consumo in quantità nel tentativo di capire se davvero quella somma così alta sia il risultato esatto (lo è sempre).
Questa triste premessa è doverosa per spiegare come mai, finalmente, ieri ho capito perché proprio non riesco ad appassionarmi alla vicenda del matrimonio di Jeff Bezos. Quando i manifestanti hanno esposto il megastriscione che protestava “Se vuoi sposarti a Venezia, paga più tasse”, ho capito che come sempre era questione di soldi: ossia voler stabilire come debbano essere usati quelli altrui, anziché voler essere liberi di decidere come usare i propri. Non essendo masochista, io non voglio sposarmi, tanto meno a Venezia; non essendo sadico, non voglio nemmeno che gli altri paghino più tasse. Vorrei soltanto pagarne un po’ meno io.