Nuova legge e pene più severe contro i furti d’auto? Se questo non è populismo penale

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore – Né paradosso, né populismo. Il disegno di legge sul contrasto ai furti di auto e relativa ricettazione presentato da Forza Italia mira a inquadrare un fenomeno criminale, che per alcuni territori è una piaga in costante crescita, all’interno di una fattispecie normativa penale più aderente all’attualità di questo reato. Che nella stragrande maggioranza dei casi è oggi compiuto per ricavare dai veicoli i componenti singoli che vanno ad alimentare il mercato illecito dei ricambi. Un reato, quindi, che alimenta una filiera criminale estesa, con ramificazioni territoriali sempre più penetranti soprattutto nella macroarea più colpita da questa tipologia di furti, cioè Lazio, Campania, Puglia e Sicilia. Il furto di veicoli, considerato l’impatto economico, sociale, ambientale e anche distorsivo del mercato assicurativo, ha assunto una sua specificità che non può più essere negata ma che le norme del codice penale e di procedura penale purtroppo non contemplano. Le modifiche previste nel nostro ddl hanno proprio l’obiettivo di far emergere l’evidenza di un reato che non può restare equiparato al furto comune e che necessita di strumenti investigativi e sanzionatori propri. Con un intento di riequilibrio specifico che è l’esatto contrario del populismo penale.

Dario Damiani


senatore di Forza Italia

Gentile senatore, il furto di auto è attualmente previsto e punito dal nostro ordinamento, come sa. Art. 624 c.p.: furto semplice. Art. 625 c.p.: furto aggravato. Introdurre un nuovo reato è una scelta legittima. A condizione che si abbia il coraggio di dire una piccola verità: l’idea che basti una pena più dura a risolvere un problema per il quale una pena esiste già si chiama populismo penale. Grazie dell’attenzione.


Al direttore – Gentile dottor Cerasa. Anzitutto un grande grazie per avermi citato, nel suo articolo del 18 giugno sulla separazione delle carriere, addirittura dopo Bobbio, Falcone, Pisapia e Amato, protagonisti del diritto e della storia democratica del nostro paese. Vorrei però precisare che nei primi anni 2000 ero favorevole alla separazione delle funzioni nell’ambito di un’unica carriera (in seguito realizzata dal secondo governo Prodi con la legge 111/2007 e rafforzata dal governo Draghi con la legge 71/2022 c.d. riforma Cartabia), ma contrario alla separazione delle carriere. Tanto contrario da aver contribuito in quegli stessi anni alla nascita del comitato del NO al referendum costituzionale del 2006 (il presidente era Oscar Luigi Scalfaro, ex presidente della Repubblica; nel comitato scientifico c’erano Franco Bassanini, Leopoldo Elia e molti altri giuristi di peso). La vittoria del nostro NO cancellò allora, fra le altre riforme costituzionali di Berlusconi e alleati, anche quella riguardante la separazione delle carriere e la nascita di due Csm distinti: la cosiddetta riforma Castelli, mai entrata in vigore. La deriva gruppettara del campo largo, coalizione che non mi è mai piaciuta, preoccupa molto anche me; non riesco, però, ad associare a questa deriva (da lei giustamente definita tafazziana) la battaglia contro la separazione delle carriere, che a me pare una coerente difesa della lettera e dello spirito delle riforme fatte dai governi Prodi e Draghi in materia. In proposito è stato confortante trovare in quello stesso numero del Foglio un forte endorsement alla separazione delle carriere da parte dell’inventore del campo largo: anche in questo caso, a quanto pare, io non la vedo come lui.

Giovanni Bachelet

Grazie della precisazione. Provo a risponderle con queste righe, con le quali potrà forse ragionare su cosa non torni nel suo ragionamento. “Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, abbandonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale, paradossalmente, a garantire meno la stessa magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti”. Firmato Giovanni Falcone. Un caro saluto a lei.

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