Dopo quella lucana, mi sono immerso nella provincia bolognese descritta dall’esordiente Pierfrancesco Trocchi. In “Filò” ci sono giovani emiliani riuniti in una villa padronale per una rimpatriata, vecchio jazz e lessico vintage, ci sono Bassani, Bugaro, “Il grande freddo” e “Le invasioni barbariche”. Ma soprattutto c’è Pupi Avati
La provincia mi culla e mi ossessiona. Dopo la provincia lucana di Andrea Di Consoli mi sono immerso nella molto diversa provincia bolognese dell’esordiente Pierfrancesco Trocchi, “Filò” (anche l’editore coerentemente è di provincia: Metilene, Pistoia). Pure gli esordienti mi attraggono ed è un buon segno, significa che sono ancora capace di speranza. La speranza di una continuità qui concretizzata a cominciare dal titolo, parola desuetissima che dopo Zanzotto pensavo di non rileggere mai più.
Trocchi non scrive di antiche veglie contadine bensì di una veglia borghese contemporanea, la storia di giovani emiliani riuniti in una villa padronale della Bassa per una rimpatriata che è un congedo, con sottofondo di vecchio jazz e lessico vintage (“sandrone” per dire “scemo”, “cristiano” per dire persona), e ci ho trovato Bassani, ci ho trovato Bugaro, ci ho trovato “Il grande freddo” e “Le invasioni barbariche” ma soprattutto, trattandosi di bolognesi, di jazz, di villa isolata, di ragazzi e ragazze, ci ho trovato Pupi Avati. E io quando trovo Pupi Avati sono sempre contento, e quando lo trovo in un esordiente sono contento di più: la provincia continua.