La guerra inevitabile, i conti con Bibi, la sfiducia nei due stati. Conversazione su Israele in attesa

La guerra con l’Iran “era inevitabile: il regime degli ayatollah è una minaccia”, dice Saviona Mane, giornalista e traduttrice israeliana, nonostante non sia un’elettrice di Netanyahu e si opponga alle sue politiche

L’Aia, dalla nostra inviata. Saviona Mane è una giornalista e traduttrice israeliana, ha vissuto in Italia, ne conosce la lingua e la cultura, ne ha scritto su Haaretz per tanto tempo. Saviona, dal 7 ottobre 2023, non ha perso una sola manifestazione per chiedere la liberazione degli ostaggi e le dimissioni del governo di Benjamin Netanyahu. È tra gli israeliani che hanno stabilito il loro quartiere generale nello spiazzo davanti al Museo d’arte di Tel Aviv, rinominato Kikar Hatufim, Piazza degli ostaggi. Nei primi giorni dopo l’attacco di Hamas se ne stava seduta reggendo un cartello contro l’indifferenza della Croce Rossa nei confronti dei 251 rapiti da Hamas: “Vergogna per la Croce Rossa”, c’era scritto. Poche ore prima del 7 ottobre, il suo destino stava per incrociarsi con quello delle vittime dell’attacco di Hamas. Un’urgente telefonata di famiglia l’ha portata via qualche ora prima dell’invasione dei terroristi.


“Il 6 ottobre mi trovavo in quella zona del Negev per un incontro spensierato tra vecchi amici. Poche ore dopo si sarebbe scatenata la strage degli innocenti immersi nel sonno mattutino di Shabbat, sgozzati nei loro letti, stuprati, mutilati: un pogrom jihadista dalle proporzioni e dall’impatto storici, paragonabile forse alla notte di San Bartolomeo”. È proprio tra gli abitanti di quella zona che ha trovato rifugio con la famiglia dai missili iraniani che piombano da più di dieci giorni su Tel Aviv. “Ieri erano loro gli sfollati. Oggi sono loro a ospitare noi, a colmare noi di attenzioni”. Non è l’unica, tra gli abitanti di Tel Aviv, a essersi spostata verso sud, per allontanarsi dai missili dell’Iran. Questa emigrazione interna, inversa a quella di un anno e mezzo fa, racconta la storia di un paese in cui gli eventi trascinano tutti come correnti, in cui l’aiutare l’altro cura il proprio dolore, ma non lo annulla: “Non so, è presto per dire se questa emigrazione interna, il ritorno al kibbutz, possa aiutare a cancellare la paura. Qui la popolazione, maggiormente agricola, sionista, pacifista, è tosta. Ma è anche profondamente traumatizzata dal 7 ottobre. Molti di loro sono ancora sfollati, altri hanno deciso di non tornare, non ce la fanno a vivere dove i loro cari sono stati bruciati vivi davanti ai loro occhi. Non so se sia un fenomeno diffuso o organizzato quello di spostarsi da Tel Aviv ai kibbutz, in questi giorni. Suppongo che i residenti di città sistematicamente colpite da missili iraniani facciano i propri calcoli e cerchino soluzioni personali. In questo momento i mostruosi missili iraniani piovono un po’ dappertutto nel paese, mentre qui ce ne stiamo tranquilli, per il momento. Tutto è talmente assurdo, surreale, imprevedibile, ancor più minaccioso dopo il drammatico ma inevitabile intervento americano”. L’attacco israeliano contro l’Iran ha fatto emergere parallelismi con le guerre del passato, il giornalista Nadav Eyal, uno degli analisti più apprezzati nel paese e strenuamente contrario alle politiche di Benjamin Netanyahu, ha paragonato l’operazione Am Kelavi alla guerra dei Sei giorni, quando Israele non stette a guardare l’Egitto che si preparava ad attaccare e si mosse per primo. Anche Saviona condivide il parallelismo, lo analizza, rammentando quei giorni: “C’è nell’aria lo stesso senso di angoscia che sentivamo durante le tre settimane che hanno preceduto il 5 giugno, lo stesso senso di minaccia esistenziale.

Tutti ricordano l’esito di quei sei giorni spettacolari, io invece ricordo il percorso: il buio fitto, i giardini pubblici trasformati in cimiteri, i racconti raccapriccianti sui soldati iracheni e marocchini che minacciavano pure loro di attaccarci, ricordo l’abbandono, il tradimento francese, mondiale, la totale solitudine di fronte alle minacce esplicite di annientamento ancor prima dell’occupazione dei territori conquistati in quella guerra alla Giordania, all’Egitto e alla Siria, quando non si parlava ancora di ‘palestinesi’, ma di ‘rifugiati arabi’. I veri palestinesi in fondo siamo noi ebrei, deportati dalla nostra terra di Israele dai romani che poi la battezzarono Palestina. Ma nell’èra delle fake news, chi se ne frega dei fatti storici”. Anche Saviona Mane, come Nadav Eyal, di cui apprezza le analisi, non è un’elettrice di Netanyahu, anzi, si oppone totalmente alle sue politiche. Ma sull’Iran non è disposta a discutere: “Questa guerra era inevitabile prima o poi: il regime degli ayatollah per noi è una minaccia esistenziale, credo che su questo gli israeliani concordino. Personalmente non mi fido di Bibi, anche lui responsabile del 7 ottobre e infangato da processi, manipolatore diabolico, che lascia marcire i nostri ostaggi per interessi politici e si scaglia contro il suo stesso popolo per avidità di potere. I conti aperti il 4 gennaio 2023, con lui e il suo governo machiavellico, continueremo a farli dopo. Adesso siamo in piena guerra con Iran”.

La parte della popolazione di Israele che ha messo in pausa la resa dei conti con il suo premier è sostanziosa. Il resto della popolazione ondeggia, sarà su chi ondeggia che si deciderà, come sempre, il risultato delle elezioni che si terranno il prossimo anno, probabilmente a ottobre. A quel punto si voterà non sui fatti soliti su cui votano le democrazie (l’inflazione, i salari, l’immigrazione), si voterà sul cambiamento più traumatico della storia del paese, sul fallimento che ha portato al 7 ottobre, sugli esiti delle guerre, sul futuro della convivenza con Gaza. Ora Saviona Mane è a sette chilometri dalla Striscia, “sento i rombi di guerra e penso agli ostaggi sotterrati da 20 mesi nei tunnel di Hamas, più morti che vivi. Penso alla popolazione civile di Gaza trascinata in questa tragedia dai loro jihadisti, che vive di odio, di stenti e di morte e mi vien da piangere. Purtroppo dopo il 7 ottobre non credo più in un accordo sui due stati per due popoli, non credo possa includere la Striscia. Anche se Hamas sparisse domani d’incanto, pochi, pochissimi in Israele darebbero fiducia a una leadership locale. Come dare fiducia a chi era ospite gradito a casa tua, a chi hai accompagnato per anni nei vari ospedali israeliani per cure, se viene poi a sgozzarti nel sonno?”. A Saviona la rinuncia dei due stati per due popoli fa male, cita un proverbio in ebraico per rendere l’idea: “Chi si scotta con l’acqua calda diffida dell’acqua fredda”.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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