Perché Trump ha bombardato l’Iran? Ogni giorno una risposta diversa

Il presidente americano si crogiola nel trionfalismo e ammicca al regime change. Muoversi senza un piano

La prima telefonata che Donald Trump ha fatto dopo che i bombardieri americani avevano colpito tre siti nucleari iraniani, nella notte tra sabato e domenica, è stata a Sean Hannity, l’anchorman più noto dell’emittente Fox News, che stava per andare in onda: gli ha detto che l’operazione era stata un gran successo. Poi Trump si è attaccato al telefono: ha parlato con molti giornalisti, da Barak Ravid di Axios (al quale il presidente americano ha detto, oltre a celebrare il successo militare: “La tua Israele ora è più al sicuro”) ai reporter dell’Abc, dell’Nbc, fino a Josh Dawsey del Wall Street Journal, 38 secondi di chiamata e il tempo per dirgli: “Spero che sarai più gentile con me di come sei di solito”. La decisione di bombardare l’Iran è stata presa nelle ore successive all’annuncio della Casa Bianca di voler prendersi due settimane di attesa per dare una chance alla diplomazia: nel frattempo è stata costruita la sceneggiata.



I dettagli emergono di ora in ora, la pantomima è stata studiata nei particolari, Trump ha voluto spettacolizzare anche la decisione più importante che abbia preso finora nella sua ondivaga politica estera, senza mai entrare nel merito delle ragioni della sua scelta né, cosa più grave, delle sue conseguenze. C’è la sorpresa e c’è l’amore di Trump per il bel gesto tecnico: persino il malamato presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha intercettato l’ammirazione del presidente americano dopo la straordinaria operazione “Ragnatela” in territorio russo, roba “da cazzuti”, aveva commentato Trump. L’esercito più potente del mondo, il gran successo di un’azione militare complessa, le mascelle abbassate di tutti: questo è quel che conta per il presidente americano. Così pensa di ricompattare il suo entourage che nell’ultima settimana si è sfilacciato non poco, con gli isolazionisti spiazzati e furibondi di fronte a un presidente che voleva la pace nel mondo a tutti i costi, e potrebbe riuscirci: il dissenso, se così si può definire il berciare scomposto di parte della corte, si è ridimensionato, Steve Bannon, che degli isolazionisti è una voce rilevante, aveva già messo le mani avanti: se l’eventuale ingresso dell’America nella guerra contro l’Iran andrà bene, aveva detto, tutti si convinceranno che è stato giusto così. Keith Kellogg, inviato dell’Amministrazione in Ucraina (doveva occuparsi anche dei negoziati con la Russia, ma è stato demansionato a favore del meno competente e più ubbidiente Steve Witkoff), ha sintetizzato l’umore collettivo così: “Passeggiando per la Casa Bianca oggi – ha scritto su X – c’è ‘una sensazione diversa’. Come se tu fossi una squadra sportiva che ha vinto un campionato o nel mondo degli affari avessi ottenuto un contratto competitivo di alto livello. Ti ‘pavoneggi’ in un modo differente. Aiuta il fatto di avere un presidente e un esercito che possono essere definiti con soltanto due parole: Bad Ass”, di nuovo: cazzuti.



Si ingoia la pillola amara, insomma, persino il ciarliero e nervoso Tucker Carlson se n’è stato zitto, mettersi troppo di traverso non conviene, anche perché la strada maestra non è esattamente dritta: Trump prima dice che ora è il momento del negoziato, poi si lascia tentare dal suo contrario, smentisce l’idea che si è trattato di un intervento temporaneo: un regime change a Teheran, perché no? L’amore per il bel gesto tecnico non prende in considerazione il risultato, ci si aggira trionfanti, con buona parte dei consiglieri che dice al presidente: nessuno prima di te ha mai avuto il coraggio di fare tanto. Laura Loomer, influencer dell’universo Maga con un incomprensibile potere alla Casa Bianca, diceva un mese fa che il suo presidente vuole la pace e compilava liste con i nomi dei falchi interventisti, oggi ringrazia Trump per aver bombardato l’Iran.


L’assenza di un obiettivo finale da parte dell’Amministrazione Trump rende questa fase molto pericolosa, perché nel mirino della Repubblica islamica d’Iran ci sono le basi americane nella regione, e questo pone fine al trionfalismo e alle telefonate gongolanti e ridà priorità alla strategia – che sembra non esserci. Come scrive David Ignatius sul Washington Post, quel che ci aspetta non è “una guerra senza fine”, come Trump definisce i conflitti gestiti dai suoi predecessori, ma uno “sconvolgimento incessante”, in cui ogni cosa è messa in discussione. Mentre il Qatar ieri chiudeva lo spazio aereo per l’allerta di un attacco imminente alla più grande base americana nella regione, lì ospitata, molti analisti si chiedevano: perché il Qatar, che ha buoni rapporti con l’Iran? Anche l’Iraq è stato colpito e, secondo Teheran, anche la Siria, due paesi in cui è in corso il ritiro delle truppe americane. Le risposte impongono la necessità di una chiarezza almeno tattica (per una dottrina si sono perse le speranze) del coinvolgimento e della difesa americana.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d’amore – corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d’amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l’Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell’Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi

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