Il teatro del mondo a Venezia. “No Title (An Experiment)” è lo spettacolo che celebra il drammaturgo Richard Foreman. Le sue frasi su cartoline ritrovate in una scatola
Seduto su una sedia a rotelle Willem Dafoe getta un bicchiere di vetro tra gli altri cocci che lo circondano e poi, insieme a Simonetta Solder, si mette a leggere – prima in inglese e poi in italiano – delle frasi a caso scritte da Richard Foreman su delle cartoline. È lo spettacolo che ha portato in scena Dafoe dentro la sua Biennale Teatro a Venezia. Un modo per celebrare Foreman, il drammaturgo newyorkese influenzato da Gertrude Stein e morto a febbraio. Le cartoline con le frasi sono state trovate nel suo appartamento in una scatola di latta. Dafoe ha voluto chiamare lo spettacolo No Title (An Experiment). “Perché volevo abbassare le aspettative. Non volevo promettere niente. Gli esperimenti spesso falliscono. A volte, se sei paziente, può accadere qualcosa di magico”, dice al Foglio. “E’ molto particolare, non è per tutti”.
69 anni, nato in Wisconsin, quattro candidature agli Oscar. Dafoe ha lavorato con Yorgos Lanthimos, Wes Anderson, Abel Ferrara, Kathryn Bigelow, Lars von Trier, Werner Herzog, Julian Schnabel, Spike Lee e Oliver Stone. Ha interpretato Pasolini, Van Gogh, T.S. Eliot e Gesù (nel troppo poco celebrato film di Scorsese L’ultima tentazione di Cristo, con David Bowie che fa Ponzio Pilato – se non ci sono i malavitosi con le pistole nessuno si ricorda Scorsese). Dalle pellicole arthouse in bianco e nero ai film Marvel “che sono come parchi divertimenti” (cit. Scorsese), dal cattivissimo al malinconico allo psicopatico, dallo sbirro al criminale, dal manager di un triste motel della Florida al guardiano di un faro. L’ampiezza attoriale di Dafoe lo ha fatto diventare un volto noto e apprezzato da una gamma multigenerazionale di pubblico, oltre che un meme, e il suo ampio sorriso iper-espressivo è riuscito a racchiudere tutte le emozioni trasferibili sullo schermo. Insomma, una carrierona sul silver screen. Ma tutto è iniziato col teatro, e Dafoe è qui per ricordarcelo. E’ stato chiamato dal presidente Pietrangelo Buttafuoco a dirigere la Biennale Teatro con un titolo molto catchy, “Theatre is Body – Body is Poetry”. Perché, ci dice Dafoe, il teatro come “corpo, poesia e rituale non cambierà mai”. “Scarnificare la sontuosità della macchina scenica per arrivare all’elemento primo e imprescindibile significa tornare alle origini, a un corpo che è involucro ma anche dispositivo mistico”, aggiunge il presidente Buttafuoco.
“Mi ricordo bene il momento in cui mi ha telefonato”, dice Dafoe. “Ho pensato: sono qualificato? In fondo sì, perché amo il teatro, ho un mio pensiero sul teatro e ho lavorato con grandi personalità del teatro. Ho scelto quello che mi piaceva, e che conoscevo. Niente shopping, non sono andato a cercare cose in giro, quello lo riserverò all’anno prossimo, e lì mi concentrerò su cose che non abbiamo mai visto”. La Biennale di quest’anno assomiglia a una necessaria lezione di storia del teatro – soprattutto statunitense, ma non solo – dell’avant-garde sperimentale, un omaggio ai giganti che usavano come collaboratori i beatnik, come Allen Ginsberg e William S. Burroughs. Un teatro sporco ma autentico, pieno di sciamani e tentativi estremi, di cui si sente l’eco ma di cui si dimentica la storia. “Il rituale non è solo la genesi del teatro, ma anche il suo potere curativo”, dice l’attore-direttore.
Gli spettacoli sono tutti esauriti. In laguna si cercano biglietti, e si parla dei Mangiatori di patate di Castellucci come fosse un concerto di Taylor Swift. Teatromania tra isole e calli. E Dafoe, per quanto appunto hollywoodiano – ma anche un po’ dell’Esquilino – il teatro lo vive da sempre. Tutto è iniziato lì, negli anni 70, a New York, nei loft di Lower Manhattan quando ancora rischiavi di essere derubato nelle stradine. “Tutto quello che faccio ha le sue radici in quel periodo”, ci dice. “Era un lavoro personale, non era legato alla carriera. L’esplosione di innovazione e di contaminazione incrociata a New York era incredibile. Moltissimi giovani, e la maggior parte non formati al mestiere teatrale, che lo facevano ‘solo per il momento’”. È stato tra i fondatori dell’ormai leggendario Wooster Group – laboratorio dell’avant-garde scenica a Soho – insieme a quella che poi è stata a lungo la sua partner e che ha appena ricevuto un Leone d’oro alla carriera, Elizabeth LeCompte. Ora Dafoe, che vive in Italia, è sposato con la regista e attrice Giada Colagrande, conosciuta su un set di Wes Anderson (e che è riuscita a fare un film con Battiato e Marina Abramovich e che ne sta preparando uno con Pedro Pascal).
“Dentro al Wooster Group, per ogni spettacolo pensavamo che sarebbe stato l’ultimo. Poi abbiamo iniziato a farne così tanti che è diventato ridicolo pensarlo. Ma l’approccio era personale e amatoriale, nel senso che lo facevamo per amore. Non per diventare ricchi famosi o per fare la storia. Lo facevamo perché eravamo un gruppo di persone, ci eravamo trovati, e c’era un coinvolgimento che ci elettrizzava”. Oggi ci si muove solo per i soldi e per la carriera? “Sì, un po’ sì”, risponde Dafoe. E ricorda che le innovazioni e i linguaggi vivono di cicli, e che oggi molti dei codici sono stati presi da quegli anni pazzi newyorkesi, a volte “perfezionati”, ma “spesso oggi sono linguaggi usati superficialmente, senza capirne le origini. Probabilmente perché si insegna teatro sperimentale all’università. Quando ero nel Wooster Group, non esisteva. Non c’era una professione, nessun ‘mondo’. L’innovazione arriva sempre da persone che non sanno che stanno innovando. Avanzano la forma d’arte, perché non ne sono parte. Sono fuori dal sistema. Quindi fanno quello che vogliono, una cosa spesso nuova. Mi ha sempre dato fastidio che chiamassero il Wooster Group ‘off off Broadway’. Non aveva niente a che vedere con Broadway. Per noi l’ambizione non era arrivare lì”. E ricorda i maestri che hanno costruito il percorso, “da Brecht a La parola ai giurati. E ci si rende conto di quanto dobbiamo a una catena di sperimentazione”. Poi c’è la questione estetica. Oggi si dimentica, dice Dafoe, che gran parte – se non tutte – le scelte di allora erano “scelte pratiche”. Ad esempio, col Wooster Group, “usavamo una televisione con un video registrato perché una delle attrici, di 90 anni, non poteva andare in tour con noi. E quindi io dialogavo con il televisore. Non era ‘un’idea’, era una necessità pratica. Una volta a Zurigo ci siamo presentati con un video di introduzione sullo schermo e ci hanno iniziato a lanciare cose urlando ‘tornate a Disneyland!’”. Allora, se la tecnologia sembrava “trashy”, oggi è completamente accettata, anzi, diventa oggetto estetico ed estetizzante dal sapore retrò.
Dafoe potrebbe parlare per ore della scena. Gli brillano gli occhi quando ricorda i momenti sul palco, quando faceva spettacoli che non erano “per nulla commerciali”, ma in cui si divertivano tantissimo, e nessuno sapeva niente del mondo del cinema, non se ne parlava. A un certo Dafoe punto è diventato il “movie guy”, e tutti, per via di questa doppia lunga vita, gli chiedono oggi che cosa preferisce: se stare davanti alla videocamera di qualche premio Oscar o sul palco davanti al pubblico. Non sceglie, perché dice che sono entrambe due cose bellissime. “C’è qualcosa di salutare quando si sale sul palco perché si ritorna sul materiale che hai preparato, sul copione, e puoi andare molto in profondità. Quando ti svegli la mattina sai cosa farai la sera, su cosa ti dovrai applicare. C’è una certa sicurezza. E allo stesso tempo puoi esplorare la parte interiore di te, perché se sei sicuro con la parte meccanica del processo, puoi far vivere tutto nel modo che scegli. Sei in contatto, cerchi la natura di quello che stai facendo”. Perché il palco richiede “una certa connessione, con i partner di scena, con il pubblico”, e c’è “qualcosa di bellissimo quando sei dentro e senti che tutto ha un suo ritmo, e senti l’intelligenza del tuo corpo e alcuni istinti che non controlli davvero ma che sono migliori di ciò che controlli consciamente. In quel momento una performance si innalza, e si sente la possibilità di una trasformazione, di qualcosa di magico”. Ti senti come “un musicista che deve sempre modulare”, e a volte si va avanti per ore senza interruzioni. Sui set invece “al massimo fai quindici minuti”, quando un regista ama i take lunghi. “Lì si lavora a pezzi. Si cerca di fare bene, girare del buon materiale. Ma alla fine la performance è nelle mani dell’editing, e tutto viene mediato dal resto della macchina cinematografica”.
Il nervosismo in scena, anche dopo una carriera come questa, non muore mai. Ma l’attore del Wisconsin, e ora di Colle Oppio, si ricorda di quando, per interpretare un pugile, si è fatto allenare da uno dei migliori trainer (che aveva anche allenato Mike Tyson all’inizio della carriera, prima che litigassero). Parliamo del film Triumph of the spirit, dove Dafoe interpreta un boxeur ebreo costretto a lottare ad Auschwitz per intrattenere le SS. “Fai quello che facevamo in palestra, mi ripeteva l’allenatore quando iniziava la scena. Ecco, per me è così su tutto. Applicati alla struttura che hai creato e anche se succederà qualcosa di nuovo avrai una certa sicurezza. Conosci le regole del gioco, e allora gioca. Magari vinci, magari perdi, ma quello che conta è la qualità di come giochi. E’ un po’ una cosa da Pollyanna, un po’ mielosa, ma è la verità. Se sei presente e ti applichi e non ti distrai e non sei transazionale, cioè non cerchi l’amore della gente o speri che pensino che tu sia bravo, ce la farai”. E cita un altro maestro, il regista Bob Wilson, che gli diceva sempre: “Prova ad arrivare a tutti e non arriverai a nessuno, prova ad arrivare a una persona sola e arriverai a tutti”.
C’è un nuovo trend in America, cioè attoroni degli studios che si buttano sul teatro, anche quando il teatro non l’hanno mai fatto. Uno su tutti è il kingmaker democratico George Clooney, che ha iniziato con ER e ora ha portato Good night, and good luck a Broadway, con biglietti che arrivano a 800 dollari. “A volte vogliono mettersi alla prova”, dice Dafoe. “Vogliono vedere se hanno la stoffa. Oppure vogliono essere visti sotto una luce diversa. Aggiungere un timbro al loro passaporto attoriale. Ma il teatro ti richiede di essere saldo e lucido. Ci vuole una certa tenacia per rendere qualcosa vivo, ogni sera. La natura dei film fa sì che con un bravo regista puoi passare per ottimo attore. Ma a teatro sei piuttosto nudo”, ride. “E’ una sfida… ”.
Non parliamo con Dafoe dell’Italia, perché gli si chiede sempre di Piazza Vittorio e della fattoria di alpaca che il suo amico Mark Ruffalo ha postato sui social. “Sono molto felice in Italia”, dice solo, con un sorriso sognante. E parla anche un buon italiano, come si sente in scena. Gli chiediamo però dei baffi rossastri, larghi e folti. “Questi?”, ride passandosi le dita sul labbro. “Sto girando un film dove interpreto un ufficiale inglese negli anni 50 [Lord Hunt, che guidò una spedizione sull’Everest]. Stiamo girando in Nepal e in Nuova Zelanda”, dice, altrimenti se li taglierebbe subito. E, in puro spirito millennial, non possiamo non parlare del fatto che lui, anche in virtù della sua partecipazione alla saga di Spider-man, dove interpreta il terribile Goblin, sia diventato un meme. “Facciano quello che vogliono!”, commenta divertito, sapendo che il suo volto è virale per la scena in cui incontra Peter Parker e si presenta come scienziato. “Sono più preoccupato per le cose fatte con l’AI”, dice facendosi più serio. “Mettono online contenuti totalmente inventati. Ti attribuiscono dialoghi o interviste, e non sei tu. E’ criminale”. Possiamo dire che l’AI sta rovinando il cinema? “Se te lo dico, qualche editor lo metterà come titolo del tuo articolo. Quindi no comment”. E in fondo, aggiunge, “è una discussione gigante. Ed è un problema. Devi essere pazzo per non ammettere che negli ultimi vent’anni le cose sono cambiate a livello sociale così tanto per via di questi…” e tira su il suo iPhone. “E non abbiamo tenuto il passo, come umanità. Non abbiamo ancora digerito questa tecnologia. E’ buffo pensare che gli smartphone ci promettevano maggiore connessione e invece ci sentiamo più isolati, e in giro c’è tanta depressione, tanta alienazione. In strada sono tutti con gli occhi sullo schermo, nessuno flirta o si guarda più negli occhi. Mi sveglio ogni mattina e maledico Steve Jobs”, dice scherzando. “Ma non dovrei, perché sta a noi”. E torniamo a parlare di teatro, guardando Punta della Dogana dalle finestre di Ca’ Giustinian. “Anche per questo il teatro è importante. Ti dà la possibilità di desiderare qualcosa di autentico. Qualcosa di diretto, non mediato. Questi – e tira di nuovo su l’iPhone – stanno cambiando chimicamente come pensiamo. Ma fino a che non ci evolviamo avremo ancora bisogno di quel contatto umano, dell’odore, del tatto. E il teatro ce l’ha. Gli atti performativi ce l’hanno, quando non sono mediati dalla tecnologia. La gente desidera esperienze autentiche e durature. Se pensi che ci sono dei terapeuti delle coccole… e invece basterebbe il teatro”.