Mentre aspetta la decisione di Trump, Israele studia le vie per Fordo

Il presidente americano usa l’esercito israeliano come arma per fare pressione su Khamenei. La resa dei conti, la stabilità del regime, i tempi del conflitto

La guerra ha un costo anche economico e quello del conflitto di Israele contro l’Iran è stato calcolato e ammonta a centinaia di milioni di dollari. Del computo fanno parte, secondo i dati del Wall Street Journal, i costi per gli intercettatori necessari a neutralizzare i missili iraniani, munizioni, aerei, carburante e la ricostruzioni dei palazzi colpiti che da sola potrebbe costare circa 400 milioni di dollari. L’attacco all’Iran non è stato pensato da Israele come una guerra lunga, e le tempistiche date da Donald Trump, le due settimane presentate dalla Casa Bianca per decidere se intervenire in guerra o trovare un accordo, portano il paese a delle considerazioni che girano tutte attorno all’impianto nucleare di Fordo, il più grande, il più nascosto, il più difficile da distruggere tra i siti del progetto clandestino del regime. Fordo per Israele deve essere distrutto.


Se rimane in piedi, con le sue centrifughe di ultima generazione in grado di arricchire l’uranio a livello militare, vorrà dire che al regime resterà la sua carta più ambiziosa. Israele non è tormentato dalle stesse domande di Trump su cosa possa succedere dopo un attacco americano, se l’intervento dei bombardieri B-2 di Washington, gli unici in grado di trasportare le bombe bunker buster capaci di distruggere il sito situato a oltre 80 metri nel sottosuolo, possa aprire a un lungo periodo di instabilità e conflitti nella regione. Per Israele è tutto molto chiaro: se Fordo è distrutto, la guerra finisce; prima si distrugge Fordo, prima finisce la guerra. L’equazione non è altrettanto scontata per Trump, che, assicurano fonti militari israeliane, ha capito il senso della missione, ma ancora attende un segnale da parte dell’Iran. Nel frattempo l’esercito di Israele continua le sue operazioni dentro al territorio iraniano, dove ha la piena libertà nei cieli. “Sono ancora molti gli obiettivi da colpire – dice Raz Zimmt, direttore del programma Iran presso l’Inss – ci sono postazioni di lancio per i missili, i missili. Ci sono altri impianti nucleari, ma Fordo rimane ancora molto difficile da raggiungere”. Il sito nucleare si trova in una regione montuosa vicino alla città di Qom, è stato costruito per resistere alle bombe antibunker, soltanto gli ordigni da quattordici tonnellate degli americani possono, con insistenza, arrivare tanto in profondità. Israele non fa affidamento soltanto sugli americani e forse non aspetterà le due settimane date da Trump – secondo gli israeliani il presidente americano prenderà la sua decisione già entro una settimana – cercherà la sua strada per attaccare Fordo. “Ci sono modi per vedersela con l’impianto”, Zimmt non entra nello specifico, ma sottolinea che con l’intervento degli Stati Uniti sarebbe più semplice. Non c’è voglia né necessità di trascinare il conflitto con l’Iran, Israele ha fretta e questo può avere un peso anche sui negoziati.


Il regime ha posto come condizione per l’inizio dei colloqui con gli Stati Uniti la fine dei bombardamenti israeliani. Per quanto Trump abbia voglia di rimettere in campo il suo inviato speciale Steve Witkoff, che si è occupato di tenere i rapporti con il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi, sa che i caccia di Tsahal nei cieli iraniani sono lo strumento di pressione più forte di cui dispone. Funzionari e analisti israeliani continuano a essere cauti nei commenti su Donald Trump, ma serpeggia anche in medio oriente l’acronimo Taco, coniato dal giornalista del Financial Times Robert Armstrong per descrivere in una sigla le continue marce indietro di Trump con i dazi. Taco sta per “Trump always chickens out” e anche in medio oriente, dopo aver paventato un ingresso nel conflitto, Trump ha fatto per ora marcia indietro. Gli Stati Uniti vogliono vedere un impegno serio da parte di Teheran nelle trattative, mentre Israele continua il suo lavoro militare. In Israele il negoziato non è visto da tutti come una garanzia di insuccesso, Zimmt per esempio ritiene che se il regime sarà pronto a fare delle concessioni che aveva escluso fino a questo momento, ci sarà la possibilità di avere un buon accordo, ma comunque la distruzione di Fordo è la garanzia migliore di un esito diplomatico di successo. Un accordo deve dare la sicurezza che Teheran non potrà ricominciare ad arricchire l’uranio e se l’impianto tra le montagne resta intatto, questa sicurezza non esiste. “Credo che Trump non chiederà a Tsahal di fermarsi, a meno che non abbia rassicurazioni talmente forti da rendere superflua la distruzione di Fordo”. Zimmt considera che il regime potrebbe aver preso la decisione di mettersi a negoziare davvero e ieri a Ginevra si è tenuta una prova generale dei colloqui con l’occidente. Lo ha fatto perché ha scelto la sopravvivenza: “Il progetto nucleare era la più grande assicurazione sulla stabilità della Repubblica islamica. Se il dilemma della Guida suprema Ali Khamenei adesso è tra mettere a repentaglio la sopravvivenza del regime ora o ritardare il momento, allora potrebbe prendere la decisione dolorosa che non ha mai osato”. Secondo le informazioni di Israele non ci sono reali minacce imminenti agli ayatollah. Se il regime sarà sfidato dai suoi oppositori o da critici interni, accadrà a guerra finita.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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