L’odiosa reputazione che si è alimentata contro “gli scafisti”

Lo scafista sta al gradino più basso dell’abiezione contemporanea. Incapace di perseguire i Bija, gli Al-Kikli e gli Almasri, l’autorità si rivale sui piccoli. Che sono anche un piatto ricco per le polizie più innervosite e per il malumore delle magistrature dei luoghi in cui naviganti e naufraghi vanno a incagliarsi. Storia di Amir Babai

Viviamo in un paese e in un tempo in cui le autorità costituite perseguono a furor di leggi, di ordini e di prepotenze, i cittadini che si impegnano a soccorrere le vite pericolanti di fuggiaschi e naufraghi, per mare e per monti. Se i soccorritori vengono denunciati al tribunale della pubblica opinione come malviventi e addirittura spiati illegalmente nei loro spazi privati, si capisce come l’epiteto più infamante del nostro vocabolario civile sia quello di scafista. Lo scafista sta al gradino più basso dell’abiezione contemporanea. Incapace di perseguire “i Bija, gli Al-Kikli e gli Almasri”, i veri grossisti dello sfruttamento economico, fisico e sessuale delle e dei disperati e coraggiosi in cerca di una vita migliore, o solo di una vita, l’autorità si rivale accanitamente sui piccoli. Quelli per i quali tenere avventurosamente una specie di barra è la tariffa di un passaggio che li mette a repentaglio come gli altri trasportati. Quando non siano dei “comandanti”, socii dell’impresa destinati a tornare indietro e ripetere l’affare, i poveracci spediti alla ventura sono sostituti, volontari o forzati, di chi dovrebbe assicurare una libertà e una sicurezza di movimento. Se io vado a Tunisi, i miei scafisti sono dei piloti in forma e delle signore nella divisa elegante di una compagnia aerea, o di un aliscafo.

L’odiosa reputazione che si è alimentata contro “gli scafisti” ne ha fatto anche un piatto ricco per le polizie più innervosite e scontente del proprio destino, e per il malumore delle magistrature relegate ai luoghi infimi in cui naviganti e naufraghi vanno a incagliarsi. Avevo appena letto e ascoltato la storia di un ragazzo libico, studente, calciatore, e dei suoi quattro compagni, imbarcati, 362 in tutto, alla volta della Sicilia, acciuffati, imputati e condannati come scafisti e addirittura corresponsabili della atroce morte per asfissia di 49 passeggeri nella stiva del barcone. Uno di loro, Alàa Faraj Hamad Abdelkarim, è in galera all’Ucciardone da dieci anni, condannato a trent’anni. Pochi giorni fa c’era un ultimo ricorso per la revisione della sentenza, e alla vigilia Lorenzo D’Agostino aveva messo su Facebook (lo trovate) un reel sconvolgente per il racconto dei modi in cui il giovane Ala e altri sette con lui sono stati condannati in tutti i gradi di giudizio. O le informazioni di D’Agostino sono balle, o sono cose da pazzi. Per Ala si sono impegnati in tanti, e fra loro don Ciotti. In uno dei ricorsi respinti, i giudici hanno consigliato di chiedere la grazia al presidente della Repubblica. Buoni, forse. Dimentichi, forse, del cambiamento di nome del ministero, che non si chiama più di Grazia e Giustizia. Era meglio rinunciare alla seconda denominazione? Leggo che Ala ha scritto, nell’italiano imparato in cella, un diario epistolare che sarà presto pubblicato.



Intanto, ieri Roberta Jannuzzi ha aperto la rassegna stampa di Radio Radicale segnalando un articolo di Angela Nocioni sull’Unità, su una storia terribile che forse mi sarebbe sfuggita. Due giovani iraniani, Marjan Qaderi Jameri, 30 anni e una figlia di otto, e Amir Babai, 31 anni, erano arrivati a Roccella Jonica su un barcone guidato da un “comandante” egiziano, erano stati arrestati, incarcerati per quasi due anni, e finalmente processati dal tribunale di Locri martedì scorso. Quando i giudici hanno interamente e lapidariamente scagionato e liberato Marjan, e però condannato Amir a 6 anni e un mese: “favoreggiamento di immigrazione clandestina”. Il “comandante” ha patteggiato per sé, e ha sempre dichiarato i due iraniani semplici passeggeri a pagamento. Ad accusarli erano stati tre altri passeggeri dei 104 salpati dalla Turchia. Durante la traversata i tre avevano molestato Marjan, Amir era intervenuto in sua difesa. Sbarcati, i tre avevano denunciato Marjan e Amir e si erano dileguati. Irreperibili, al processo.



Non è facile rassegnarsi alla sentenza. Non si è rassegnato Amir. E’ rientrato in galera e si è tagliato la gola. E’ stato salvato solo dalla fortunosa presenza di turno di un chirurgo che l’ha ricucito con quindici punti. La giornalista dell’Unità pubblica una suggestiva trascrizione dell’arringa della pubblica accusatrice, uno sfogo contro la pressione mediatica (a Radio Radicale era stata rifiutata la registrazione), una singolare evocazione di supposti indizi della colpevolezza dei due (“Il commissario T. che cosa ha detto? Ha detto che loro stavano mano nella mano”). Mi ha colpito un dettaglio delle parole della procuratrice che, difendendo “l’operato encomiabile delle forze dell’ordine e della magistratura, soprattutto nei territori dove noi ci troviamo a operare”, ha continuato: “Dove io mi trovo a operare da più di sei anni ormai, perché ho origini di altro tipo”. Mi sono chiesto che cosa significhi questo cenno alle origini. Ho contentato un po’ la curiosità trovando che la magistrata, in una recente occasione in cui si discuteva della violenza di genere e del codice rosso, aveva detto: “Provenendo da Milano ho comparato l’ambiente Nord e Sud, riscontrando che le differenze non sono tante e che i casi di violenza, soprattutto domestica, si verificano dappertutto, anche se non sempre vengono denunciati”. Osservazione del tutto ragionevole, che ha un po’ dissipato la mia preoccupazione che Cristo si fosse fermato a Cutro. E provenendo, questa volta, dalla direzione giusta: da sud.



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