Classe 1948, non era solo lo stopper con il numero 5 sulla schiena, ma anche l’unico romano nella squadra biancoceleste. “Tutti gli amici, con cui giocavo senza paura in mezzo alla strada, erano tifosi della Roma. Io ero uno dei rarissimi fuori dal coro”. Intervista
Il volo nel cielo biancazzurro dell’unico core de Roma della Lazio scudettata del ‘74. “Sono nato al Tufello. E del Tufello, come canta il rapper Rancore, conosco ogni curva, ogni strada, ogni bivio. Al Tufello, quando ero bambino, ma forse anche adesso, c’erano solo il pallone, la boxe e, tutto intorno, alternative e tentazioni pericolose. Al Tufello non c’erano campi, ma solo orti coltivati alla rinfusa. Il calcio è stato la mia vita da subito. Tutti gli amici, con cui giocavo senza paura in mezzo alla strada, erano tifosi della Roma. Io ero uno dei rarissimi fuori dal coro. A convincermi era stato il fratello di mia madre, laziale avvelenato come ne avrei conosciuti pochi, che mi portò a vedere un Lazio-Lanerossi Vicenza al Flaminio, là dove dovrebbe sorgere il nostro stadio. Lei non ci crederà, ma a stregarmi non fu la maglia biancoceleste, ma i pantaloncini bianchi che luccicavano al contatto con la luce”.
Giancarlo Oddi, classe 1948, della Lazio scudettata del 1974, non era solo lo stopper con il numero 5 sulla schiena, ma anche l’unico romano. Della romanità delle borgate conserva er core, la simpatia contagiosa e l’orgoglio di una vita riuscita, laddove non era scontato…
“La mia fortuna è stato mio padre. Era quel che si dice un uomo tutto d’un pezzo e non mi ha consentito di andare oltre e di deviare da quella che per lui era la via retta da seguire. Prendermi di mira non era conveniente per nessuno. E, quando facevo qualcosa di sbagliato, lo veniva a sapere prima di chiunque altro. E io andavo ogni volta in difficoltà, chi vuol capire capisca. Era un camionista, ma prima era stato un pugile. Mettersi contro di lui era pericoloso. E potenzialmente un macello. Con le buone o con le cattive ripristinava l’ordine costituito. Era un uomo che si faceva rispettare. Senza di lui non ci sarebbe stato niente di quello che è venuto dopo. Senza di lui sarei rimasto lì a bighellonare. La mia prima squadra è stata quella arrangiata della mia borgata. Si chiamava pomposamente Santos, come quella dove giocava il mio idolo Pelé, campione del mondo con il Brasile a Stoccolma nel 1958. L’allenatore era un ragazzo che aveva avuto problemi con la giustizia. Io avevo dieci anni e tanta voglia di correre incontro a tutto quello che non fosse sbagliato”.
La gavetta di Giancarlo der Tufello è stata breve. I tornei di quartiere con il Santos de noantri, il Gate, la squadra del Giornale d’Italia, che giocava le partite casalinghe all’Acquacetosa…
“Dalle strade del Tufello ai campi con l’erba verde dell’Acquacetosa. È stato il mio primo salto in avanti. Poi l’Almas, che era a San Giovanni. Prendevo il 33 fino alla stazione Termini e poi il 4 sino alla meta. Da lì il salto fu triplo. Con la Primavera della Lazio andai a giocare un torneo in Francia e puoi immaginare che cosa può significare per un ragazzo passare tutto d’un botto dal Tufello alla Torre Eiffel. A Tor di Quinto arrivavo con l’autostop, che era l’unico mezzo di trasporto disponibile. Il sogno galoppò più veloce della luce e io ne ero abbagliato, come da quei pantaloncini bianchi della mia prima partita dal vivo. Una corsa senza ostacoli dalle giovanili alla prima squadra, Chinaglia, Maestrelli, noi che ci sentivamo più forti di tutti, anche se eravamo parte di una squadra, che prima non aveva vinto niente. Anche se gli altri si chiamavamo Juventus, Inter e Milan”.
Alla Lazio ritrova Long John Chinaglia…
“Avevamo fatto insieme il servizio militare, così come era capitato a Martini e Re Cecconi. I clan, ovvero le anime contrapposte che in campo diventavano una sola, sono nati in caserma. Alla Lazio arrivai prima di lui, che veniva, come Wilson, dall’Internapoli. “Che ci fai qui?”, mi chiese, incredulo e felice. Non ci saremmo mai più separati”.
Lei era l’unico romano…
“Sì e li prendevo in giro come si fa con chi a Roma arriva come uno sprovveduto forestiero. C’erano i gruppetti contrapposti, ma alla domenica si scioglievano tutti e c’era solo la Lazio. Noi eravamo convinti di essere più forti anche di chi aveva scritto la storia, Inter, Milan e, soprattutto, Juventus, che all’epoca era per tutti la padrona d’Italia. Quella Lazio non sarebbe stata la grandissima squadra che è stata, se non ci fosse stato Tommaso Maestrelli. Prima di essere un bravissimo allenatore, era un uomo eccezionale. Noi potevamo anche farci del male fra di noi, ma poi parlava lui. Parlava con tutti, anche con gli amici e le fidanzate. E tu non potevi far altro che ascoltarlo. Maestrelli è stato il nostro colpo di fortuna. C’erano i “milanesi” e gli altri: io, Chinaglia, Wilson. Gli uni contro gli altri armati. Orgogliosi, spavaldi, impertinenti, egocentrici, rissosi. Poi arrivava Maestrelli e diventavamo una squadra”.
Un colpo di fortuna che rischiò di perdersi nei meandri di una contestazione feroce…
“Eravamo appena risaliti in serie A. Eravamo stati eliminati dalla Coppa Italia. Andammo ad allenarci al Flaminio, pensando che potesse, se non disperdere, almeno diradare la protesta. E, invece, quando uscimmo dal sottopassaggio e iniziammo il riscaldamento agli ordini dell’allenatore in seconda, che era Bob Lovati, fummo investiti da fischi e dal frasario classico della rabbia romanesca. Maestrelli non era con noi, sembrava sparito. Poi vedemmo che era salito in tribuna per parlare con i contestatori. Fummo tentati dall’uscire dai ranghi per andare a difenderlo, ma Lovati ci bloccò. Finì che tutti applaudirono non solo lui, ma l’intera squadra. Fu un passaggio importante, perché da lì cominciammo a volare. Eravamo partiti per non retrocede e abbiamo riscritto la storia”.
Un quasi scudetto nel ’73, uno vero, il primo della storia della Lazio l’anno dopo, ma niente Coppa dei campioni, perché per il precedente della partita contro l’Ipswich in Coppa Uefa…
“A casa loro l’arbitro ce ne fece di tutti i colori. Solo per farle un esempio, uno, che marcavo io, si procurò un calcio di rigore, dandosi un calcio contro sé stesso. Il risultato della farsa messa in scena fu 4 – 0. Finita la partita, ci presero in giro chiamandoci a mo’ di beffa “italians” e ci sputarono in faccia. Petrelli, che era il meno tranquillo della brigata, voleva menare le mani, io gli dissi di stare calmo, tanto ci saremmo sfogati al ritorno. E all’Olimpico, quando capimmo che la rimonta era divenuta impossibile, per colpa di un altro arbitro osceno, smettemmo di giocare e iniziò la caccia all’uomo, arbitro compreso, che si prolungò anche nel sottopassaggio, dopo il triplice fischio del castigatore in casacca nera. Noi non abbiamo mai imparato ad abbassare la testa. Ci piaceva troppo farci rispettare”.
È cambiato più il calcio o il Tufello?
“Il Tufello non è cambiato. Sta lì. Fermo. Ad aspettare, ora come allora, che passi la buriana. Il calcio, invece, è cambiato profondamente. Non c’è più la generosità che c’era prima. Non ci sono più quegli affetti smisurati. Non ci sono più i padri e, conseguentemente, neppure i figli. Oggi un allenatore si trova di fronte calciatori provenienti dai più svariati Paesi. Se non conosci tutte le lingue, ti rimangono i gesti”.
Le capita ancora di sognare?
“Sogno il Santos del Tufello, la giovinezza ma, soprattutto, la grande bellezza che eravamo tutti insieme. Sogno i miei compagni. Io sono fortunatissimo, perché sono ancora qui, mentre la maggior parte di loro non c’è più. Sono mancati troppo presto e in un modo troppo doloroso. Quello che è accaduto a noi non accade quasi mai. Morti incredibili. Il dolore fa ancora male. Fortunatamente i sogni sono per loro natura dolci e consolatori, come una carezza al cuore. Eravamo spavaldi e orgogliosi. Potenti e comparse si dovevano allo stesso modo rassegnare. Eravamo noi i più forti”.