Carlo Calenda attacca John Elkann da Trump con la Juve. Una relazione complicata che arriva da lontano
“Umiliante per l’Italia”. Così Carlo Calenda commentava ieri la foto della Juventus nello Studio ovale della Casa Bianca, col presidente Trump che straparlava di Iran e di trans nel calcio e il pòro Elkann che cercava di rimanere impassibile con quello che è comunque sempre il leader del mondo libero. “Umiliazione inflitta ai giocatori costretti ad assistere in modalità belle statuine ai deliri di Trump per ordine del padroncino”, ha scritto Calenda su Instagram; e non si sa se sia parte della lunga marcia di avvicinamento verso la maggioranza meloniana, che non ama Elkann, o se glieli faccia l’AI o cosa, ma ormai “Calenda contesta foto” è il nuovo format del leader di Azione e la sua nuova incarnazione.
Dopo il Calenda renziano, il calenda antirenziano, il Calenda ambasciatore, il Calenda candidato sindaco di Roma, il Calenda educational (quello sempre in giro tra musei e rovine greco-romane, di tre anni fa, quello che parlava dell’obbligatorietà del liceo classico), quello dei leggendari post “Padre e fratelli sulla rocca di Micene. Papà ci ha cresciuti con i racconti omerici e la mitologia greca!” (“Grande Carlé vorremmo troppo partecipare a questi momenti culturali a patto di andarsi poi a scofanare di souvlaki e moussaka”, commentava un follower).
Adesso siamo in fase Calenda contesta foto. Giorni fa contestava una foto del Pride che prendeva in giro Meloni tra i dittatori. Però la fase anti- John Elkann pare la più stabile. Note le posizioni sulla politica industriale di Stellantis. Le accuse di aver svenduto l’azienda di componentistica Magneti Marelli, e ai sindacati di non occuparsi abbastanza della vecchia Fiat. Però adesso questo “Umiliante per l’Italia”, commentando la foto della Juve da quello che è comunque il presidente americano, in America dove Stellantis ha metà dell’impero, pare un po’ esagerato, pare più una polemica da “circolari”, da spogliatoio dell’Aniene, che da Casa Bianca (o bianconera).
Ma la relazione con gli Elkann, anzi con John Elkann, è da molti anni spinosa. Con dei distinguo, appunto. “Lapo è una persona a cui voglio bene, è una persona buona, profondamente attaccata a questa città e all’Italia”, ha detto Calenda a Torino qualche giorno fa a un forum del Corriere. Dove ha aggiunto che di Lapo approvava anche una certa creatività coi materiali. “L’ho conosciuto in Ferrari. Nell’uso della cordura e del carbonio è stato un pioniere”. Al di là della cordura e del carbonio, Calenda ricordava che li vedeva spesso, i ragazzi Elkann, Lapo e John, nella casa di loro padre Alain a Moncalieri vicino Torino. Al Foglio però raccontano che nessuno si ricorda di queste visite di Calenda a Moncalieri. Neanche a Torino. Comunque Calenda, in quanto assistente di Montezemolo, nel suo periodo e fase manager gravitava più su Modena e Maranello.
Lì anche ci fu la celebre convivenza con Lapo, raccontata in stile “Animal House” dalla moglie di Calenda. “Non capivano che per regolare il riscaldamento in casa c’era un termostato” ha raccontato Violante Guidotti Bentivoglio al Giornale. “Arrivai nella casa dove vivevano Lapo e Carlo, a Modena, in inverno. Fuori nevicava. Ricordo che trovai Lapo a girare per casa in pareo”. “Lapo era un personaggio straordinario. Però era naif. Disordinatissimo. Comprava casse di mozzarelle. Lapo e Carlo erano due mine vaganti: non cambiavano le lenzuola. Gli dissi che o si civilizzavano, o me ne sarei andata”, ha raccontato.
Lapo era presente pure al matrimonio di Calenda a Roma, con ricevimento al Circolo della Caccia, quello dei nobili romani. Con John invece nulla. Nessun rapporto che si conosca. Del resto “John non ha amici a Roma”, raccontano al Foglio. Né Calenda rientra in quella dimensione aristo-tecno-internazionale di John che semmai si vede fotografato con dei magnati siliconvallici o indiani. Solo incontri formali, a Roma, come l’audizione parlamentare di qualche mese fa, non certo cordiale, in cui Calenda lo incalzava chiamandolo “Ingegner Elkann”.
E tra Roma e Maranello, del resto, più che a Torino, si snoda il romanzo del giovane nipote di diplomatici e registi, tra i Parioli e i circoli e i concessionari delle macchine. “Ho fatto cinque anni alla Ferrari, dal ’98. Ero entrato in stage, poi ho fatto l’impiegato e il funzionario. È così che ho costruito il mio rapporto con Luca Cordero di Montezemolo” , ha detto qualche anno fa Calenda a Peter Gomez. I rapporti passano dal padre, ma anche dalla madre, la regista Cristina Comencini, robe insomma di Parioli e un po’ di Parigi, come si vede nel bel film ultimo della Comencini, “Il tempo che ci vuole”, dedicato al padre grande regista; e poi il celebre liceo francese Chateaubriand che frequentano i figli di Calenda, e questa dimensione francese è una delle poche che accomuna i due, i più distanti che si possa immaginare.
Uno distaccato e efficiente, l’altro, Calenda, più fumantino e istintivo. Uno riservatissimo, che non esce mai, l’altro caciarone. Uno torinese-francese-newyorchese, l’altro più a suo agio a Capalbio (spiaggia di Carmen Bay). Uno salutista, l’altro tabagista. E se John va ai matrimoni indiani, come quello di Anant Ambani, con tutti i magnati del globo e insieme a Mark Zuckerberg, Calenda col suo tight e i capelli e i look che gli fa Roberto D’Antonio, il mitico parrucchiere-confessore delle dive, è il re dell’upper class aristo-generonica romana (e probabilmente si diverte di più). Una volta Calenda raccontò: “Vedete questa cicatrice che ho sulla faccia? Me l’ha fatta Moroello vent’anni fa”, ed era una scazzottata a un matrimonio (Moroello è Moroello Diaz Pallavicini, nobile romano discendente del Duca della Vittoria. ‘A John, ma tu che ne vuoi sapere!).