L’ascesa dell’Osint nella guerra fra Israele e Iran

Come in un gigantesco risiko online, investigatori civili e autodidatti incrociano dati satellitari e social media per decodificare gli scenari bellici mondiali. Un fattore non più trascurabile nel mondo post-pacificato in cui viviamo

Milano. Alle 3 e 27 del 13 giugno 2025 i primi bagliori sopra Teheran compaiono su Telegram. Tre minuti dopo gruppi di analisi sovrappongono quelle riprese alle immagini Sentinel-2 e ai tracciati Ads-B, localizzano batterie a Kermanshah e la rotta di F-35 decollati dal Negev. Quando l’esercito israeliano annuncia l’operazione Rising Lion alle 3:47, una mappa dei bersagli è già accessibile: la cronaca non è più monopolio dei comunicati militari. Un fenomeno, quello dei danni provocati e pubblicati online in tempo reale, che serve anche alle intelligence dei vari paesi per capire dove si buca il sistema di difesa.

L’Open-Source Intelligence, o Osint, è l’uso sistematico di fonti aperte – satelliti commerciali, registri di volo, contenuti social – sottoposte a procedure di verifica che combinano geolocalizzazione, metadati e controllo temporale. Le piattaforme d’elezione sono canali Telegram e repository collaborativi finanziati da abbonamenti e crowdfunding. Il risultato è un flusso quasi continuo di dati che, una volta validati, alimenta media, istituzioni e opinione pubblica.

L’impiego di algoritmi di riconoscimento capaci di distinguere in tempo reale la sagoma di un drone Mohajer da quella di un Uav Heron ha ridotto l’intervallo fra evento e conferma a una media di dieci minuti, con punte fino a cinque.

La manovra israeliana del tredici giugno è stata monitorata in diretta. Rilievi open source mostrano crateri compatibili con munizionamento a guida gps in due basi di Tabriz e un calo stimato del cinquanta per cento nei lanci iraniani nelle ventiquattr’ore successive. Pur parziali, questi dati vengono ormai esaminati anche da organismi multilaterali.

Ma la velocità è un’arma a doppio taglio, anche quando parliamo di intelligenza collettiva. Nelle ore successive allo strike sono circolati video del 2024 presentati come nuovi attacchi su Tel Aviv. Dinamiche analoghe si erano verificate a Gaza tra il 2023 e il 2024, quando filmati dei tunnel dell’ospedale al-Shifa vennero rilanciati con letture opposte dalle parti in conflitto, così come le immagini dell’esplosione al porto di Beirut vengono riciclate di volta in volta in maniera strumentale alle varie fazioni in gioco. Se e quando il fact-checking arriva, ha comunque impatto emotivo e visibilità infinitamente inferiori alla fake news originale.

Lo stesso flusso di immagini alimenta una dimensione spettatoriale. Dalle alture di Metulla e Zibqin residenti e curiosi trasmettono via 5G le scie degli intercettori Patriot, materiale subito riutilizzato nei circuiti di propaganda. L’osservazione in tempo reale diventa parte della competizione narrativa.

Il timore di essere smentiti induce gli stati a comunicati più tempestivi ma stimola anche contromosse: disinformazione mirata, cyber-attacchi ai ricercatori, pressioni sugli operatori satellitari perché riducano la risoluzione. Se l’Osint assurge a istituzione rischia insomma di perdere le sue fonti.

Rimane dunque un quesito inevaso: la trasparenza può contribuire a ridurre la violenza o ne sposta solo il perimetro simbolico? Nei primi cinque giorni di confronto le vittime civili registrate sono alcune decine in Israele e alcune centinaia in Iran, numeri che l’Osint può documentare ma non modificare. Il nuovo ecosistema informativo fa evolvere la comunicazione tradizionale e offre uno strumento di controllo pubblico, ma non sostituisce la diplomazia né incide, per ora, sulla capacità di fuoco delle parti in causa.

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