In Iraq sventolano le bandiere dell’Iran: “Via gli americani da qui”

Le milizie sostenute dai pasdaran minacciano di attaccare le basi degli Stati Uniti in caso di intervento armato contro Teheran. Gli attacchi alle basi americane e lo Stato islamico alla finestra

Pianificare un attacco è solo parte di una guerra, perché occorre tenersi pronti anche alle conseguenze di quell’attacco. La deduzione semplice ma efficace è del generale americano Frank McKenzie, ex capo del Comando centrale statunitense, che ieri al Wall Street Journal ha lasciato intendere che bombardare l’Iran avrebbe altri risvolti per gli interessi americani. In Iraq, per esempio, le reti di influenza delle Guardie della rivoluzione islamica sono già entrate in azione. Negli ultimi giorni, migliaia di sostenitori dei pasdaran sono scese in strada sventolando la bandiera iraniana. A Baghdad le proteste anti americane e anti israeliane hanno raggiunto piazza Tahrir e la “zona verde”, che ospita le ambasciate straniere. I manifestanti chiedono agli americani di chiudere l’ambasciata – già parzialmente evacuata una settimana fa – e di lasciare il paese, una richiesta analoga a quella che ripetono da anni ormai e che l’attacco all’Iran ha reso ancora più forte. Il sentimento anti americano ha contagiato l’intero paese, in questi giorni anche le strade di Bassora e della città santa di Kerbala.

Da quando Donald Trump ha cominciato a ventilare l’ipotesi concreta di un intervento diretto al fianco degli israeliani, le milizie sciite dell’Iraq sostenute e finanziate dagli ayatollah hanno minacciato gli americani: se attaccherete l’Iran, sarà guerra anche qui. Nadim al Saaedi, capo della milizia filo iraniana Harakat Hezbollah al Nujaba, ha scritto su Telegram che “se Washington attaccherà l’Iran, allora noi attaccheremo le basi americane in Iraq”. Secondo Abu Ala’a al Wala’i, comandante di Kataib Sayyid al Shuhada, un’altra milizia sciita sostenuta dagli iraniani, “gli americani, che controllano da vent’anni lo spazio aereo iracheno con le loro forze di occupazione, hanno disattivato i radar iracheni permettendo agli aerei sionisti di attaccare Teheran” e per questo “vanno cacciati dal paese”. Domenica scorsa, uno dei gruppi armati più forti, quello di Kataib Hezbollah, si è unito alle minacce anti americane, premettendo però che per ora “la Repubblica islamica non ha bisogno di alcun supporto militare per scoraggiare la criminale entità sionista. Possiede gli uomini e le capacità sufficienti per umiliare Netanyahu e porre fine alla tirannia di questa entità usurpatrice”.

Rimasto ostaggio della costellazione di gruppi armati filo iraniani, il premier iracheno, Mohammed Shia al Sudani, ha condannato formalmente l’aggressione israeliana. Fonti sentite dai media locali, parlano però di una certa preoccupazione da parte del governo. Si rincorrono voci non confermate di movimenti di armi che i pasdaran avrebbero già recapitato alle milizie irachene. A Baghdad si è coscienti che un intervento americano porterebbe il paese nel caos, rendendo l’Iraq ancora meno governabile di quanto non lo sia ora.

Finora le milizie sciite irachene si sono limitate a minacce e a qualche attacco sporadico. Domenica scorsa, poche ore dopo l’avvio dell’operazione Rising Lion contro l’Iran, tre droni di fabbricazione iraniana sono stati abbattuti prima che colpissero la base americana di Ain al Asad, nella provincia di Anbar, nell’Iraq occidentale. L’attacco non è stato rivendicato, ma solamente i combattenti sciiti raggruppati sotto il cartello della Resistenza islamica dell’Iraq sono dotati di droni iraniani. Si stima che questo “consorzio” di milizie, tutte foraggiate dai pasdaran, conti all’incirca 50 mila uomini, tutti con una lunga esperienza della guerra sottotraccia combattuta contro gli americani in Iraq. Distribuiti in poco meno di una decina di basi militari nel paese, gli Stati Uniti hanno dislocato nel paese non più di 2.500 soldati, impegnati a sostenere le Forze armate irachene contro lo Stato islamico.

Il rischio di un contagio riguarderebbe anche la vicina Siria, dove qualcosa al confine con l’Iraq si è già mosso in questi giorni. Fonti sentite dal quotidiano panarabo Asharq al Awsat hanno riferito dell’avvio di un’operazione militare da parte delle forze siriane ad al Bukamal, al confine con l’Iraq. Secondo l’intelligence siriana, le milizie legate ai pasdaran si sarebbero riattivate dall’inizio degli attacchi israeliani, un evento che in Siria non si registrava dalla caduta del regime di Bashar el Assad. Martedì, Reuters ha scritto che, nella provincia nord-orientale di Hasaka, tre missili iraniani sono stati intercettati dagli americani prima che colpissero la base militare di al Shadadi. Si tratta di uno degli avamposti usati finora dagli Stati Uniti e dai loro alleati delle Forze democratiche siriane (Sdf) per tenere sotto controllo lo Stato islamico in Siria e che ora è interessato dalla smobilitazione americani dal paese. Da mesi, il presidente Donald Trump studia il ritiro di buona parte del suo contingente dalla Siria e l’intenzione sarebbe di ridimensionarlo, passando dai circa 2 mila uomini di adesso ad appena 500. Mazloum Abdi, comandante curdo delle Sdf, ha accettato suo malgrado la decisione di Trump e ha ricordato che “la minaccia dello Stato islamico è aumentata in modo significativo di recente”. Non che Washington non ne sia consapevole, dato che lo scorso 10 giungo, il generale Michael Kurilla, comandante del Comando centrale americano, ha detto al Congresso che l’Isis dispone di duemila uomini al confine tra Siria e Iraq e che, secondo l’intelligence, “potrebbe rinvigorire le proprie capacità di combattimento nel giro di un paio di anni”. Di certo, i primi a esultare per un intervento americano in Iran e per il caos che ne deriverebbe tra Iraq e Siria, sarebbe proprio ciò che resta del Califfato.

Di più su questi argomenti:

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare “Morosini”. Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.

Leave a comment

Your email address will not be published.