A lezione di autenticità da Steve McCurry

“Non puoi affidarti a un algoritmo per interpretare le emozioni o raccontare il mondo”, dice il “fotografo dell’umano” che capita si dedichi alla fotografia di moda: “Se leggo il mio editorialista preferito, cerco il suo sguardo, non quello di una macchina”

“L’intelligenza artificiale rivoluzionerà la fotografia, ma c’è un rischio enorme. Potrà creare immagini bellissime, certo, ma non saranno reali. Come facciamo a fidarci di una macchina per capire le emozioni, la verità di un luogo?”, dice Steve McCurry, leggenda della fotografia mondiale, a Roma per un workshop professionale con Eolo Perfido, che alla pratica della fotografia ha affiancato la produzione e l’accademia.

Ci incontriamo al termine della sei giorni di incontri che, come nella scuola di Atene, McCurry tiene sia negli studios di Perfido sulla Casilina, periferia romana purissima, sia per le strade del centro, appunto in modalità peripatetica. Terrà un’altra serie di incontri fra un mese, sul sito risultano già esauriti. Sebbene abbia optato per il digitale da oltre un decennio, nutre infatti più di un timore nei riguardi del passo tecnologico successivo. Riconosce le potenzialità dell’intelligenza artificiale, ma ne teme l’ambiguità ontologica: “Non puoi affidarti a una macchina per raccontare il mondo. Leggo il mio editorialista preferito perché voglio proprio il suo sguardo, (non quello di un algoritmo)”.

McCurry ha settantaquattro anni, e parla con l’urgenza di chi non ha tempo da perdere. Il suo approccio all’immagine ha attraversato i decenni con la forza silenziosa dei volti, degli sguardi, dei gesti minimi. “La cosa più importante che ho imparato è il rispetto per l’umanità, qualsiasi sia la religione che pratichi, il luogo dove sei nato. Basterebbe questo per disinnescare i conflitti” osserva, con quella predittività apodittica tipica dello sguardo americano sul mondo e il gusto per l’effetto che gli deriva, probabilmente, dagli studi, quella laurea in Teatro e cinematografia ottenuta nel 1974 a Philadelphia, un decennio prima dell’ormai fin troppo celebre immagine della giovanissima profuga del campo di Peshawar, la “ragazza afgana” nota almeno quanto la “ragazza con l’orecchino di perla” di Vermeer. “Mi trovavo tra le montagne pakistane per sfuggire alla calda estate indiana. Alcuni rifugiati afghani mi dissero: sei un fotografo? Dovresti venire con noi e raccontare la nostra storia”.

Foto di Filippo Ricci

Sembrava un’avventura. Lo era. Lo vestirono con un tunica locale, gli tinsero i capelli, lo rasero. La sua macchina fotografica, un leggero zaino in spalla, e tanto cammino. Scattò le sue prime foto in zona di conflitto, le pallottole schizzavano da una parte all’altra. A Natale del 1979, l’Unione Sovietica invase l’Afghanistan. E quelle immagini dapprima ignorate, sviluppate in bianco e nero per supplier ai rullini scadenti made in Ddr, vennero improvvisamente contese dalle più importanti testate mondiali. Oggi che, per un progetto pubblicitario-editoriale di Stefano Ricci, è tornato in India, una delle rarissime commissioni di moda che abbia accettato negli ultimi anni, è andato e ricercare luoghi e inquadrature a lui care, in particolare a Jodhpur. “Abbiamo scelto un approccio elegante, rispettoso della cultura locale. È stato un piacere celebrare l’India, l’architettura, le persone. Quando entri nella casa di qualcuno, devi rispettarla”. Dopo quello in Cambogia l’anno passato, il viaggio tra Rajasthan e Uttar Pradesh ha offerto quinte regali dei capi del brand fiorentino.

McCurry non si limita a celebrare, ma testimonia. Sì, l’alta sartoria, tavolta, a condizioni ben precise. Ma soprattutto le guerre, la disperazione, le violenza sull’ambiente, i cambiamenti climatici, la resilienza delle comunità. Prima degli altri, con più colori degli altri. Ne fa un’etica del lavoro: “Il talento è importante, ma senza perseveranza resta incompiuto. Non serve essere un genio. Devi voler imparare, migliorare. Fallire per imparare ancora”.

Non doveva essere là, quell’11 settembre del 2001. E invece un contrattempo nel rientro dal Tibet l’aveva bloccato a New York. Dal tetto del suo studio immortal le Twin Towers in fiamme davanti a sé. “Quando la prima crollò, pensai subito: cadrà anche la seconda. E la fotografai mentre veniva giù”. Lavorò in stato di trance, uno scatto dopo l’altro. “Era come se il cervello non riuscisse ad accettarlo. Poi andai a Ground Zero”. Lì comprese, ancora una volta, che le storie chiamano ma non ti aspettano. Devi uscire e andar loro incontro, accettando tutti i rischi. “Se fossi sceso in strada mezz’ora prima, avrei potuto morire. Una questione di pochi secondi, forse”. La morte non lo spaventa, ma l’assenza sì. Da quando è diventato padre di Lucia, otto anni fa, il suo sguardo si è focalizzato su altri obiettivi. “È arrivata la responsabilità. Vuoi che tua figlia sia preparata, che sappia lottare per le cose giuste che le hai insegnato”.

E a proposito di genitorialità e di emozioni, racconta di un video che lo ha commosso: una scimmia, cesareo d’urgenza, al risveglio ritrova il cucciolo, lo stringe. “Una madre che teme di aver perso il proprio piccolo. È stato un momento potentissimo. Mi ha fatto quasi piangere”. Si dice convinto di “sapere” come funzioni “il regno animale”, ma di ignorare quello entropico dell’essere umano; per lui, “una vite allentata” da stringere. Anche in tempi di intelligenze artificiali, al plurale, è questo lo scatto che McCurry vorrebbe restasse: quello del rispetto, della testimonianza priva di giudizio.

La tecnologia al servizio dell’uomo, mai il contrario. Anche nei social, che usa senza risparmio, ma con cautela forse perfino maggiore di quella che riserva alla fotografia: “Possono essere uno strumento meraviglioso o una gran perdita di tempo. (Come per ogni mezzo) dipende da come lo si usa”. È riuscito perfino a instaurare un rapporto sereno con I suoi follower fra i quali, needless to say, allignano hater e detrattori: “In parte li ignoro, se posso li blocco. La gente può dire quello che vuole, e spesso lo fa in modo ignorante. Parla di cosec he non conosce, con un’aggressività cruda e odiosa. Capita che mi trovi a pensare se non abbia di meglio da fare nella vita (che attaccare me)”. Forse, no. “Mi verrebbe voglia di dire loro di alzarsi dalla sedia e di fare qualcosa di utile. Sprecare tempo in questo modo, significa avere an empty soul”. Letteralmente, un’anima vuota. Nella personale scala di valori di McCurry, che oggi si trova suo malgrado a vivere in un Paese dove il presidente attacca gli oppositori sui social e il suo consigliere privilegiato dell’altro ieri, Elon Musk, “ha interrotto programmi da cui dipendevano delle vite umane”, si tratta di un peccato capitale.

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