La lezione di Ben Gurion vale ancora: l’incolumità dei cittadini è il primo sostegno al fronte. È la mobilitazione integrale in cui ognuno ha un ruolo. I civili devono sentirsi parte di una missione storica e collettiva. Questa ideologia si è trasformata in strategia nazionale: è il cuore della resilienza israeliana
Tel Aviv. Dopo un’altra notte trascorsa nei rifugi, la gente timidamente mette la testa fuori di casa. Le scuole e i luoghi di lavoro non essenziali sono chiusi, secondo le disposizioni d’emergenza emanate dopo il primo attacco in Iran di giovedì notte, e prorogate fino a nuovo ordine. Anche i negozi sono tutti chiusi, soltanto quelli di beni di prima necessità hanno il permesso di aprire al pubblico. Ma Israele non si ferma. Nel centro commerciale, un piccolo gruppo affolla l’ingresso della farmacia, al supermercato ci sono le file alle casse, mentre i ristoranti, aperti solo per l’asporto, ricevono ordinazioni senza sosta. L’unica pasticceria aperta ha qualche tavolino fuori, anche se non sarebbe permesso. Signore di mezza età affogano le preoccupazioni in cappuccini fumanti, scambiano impressioni sulla notte trascorsa nei rifugi.
Parlano con disinvoltura di missili balistici, traiettorie e testate, mentre spiluccano una brioche alla crema. Ormai anche i bambini conoscono i nomi dei siti nucleari di Natanz e Fordo, luoghi sconosciuti fino a qualche giorno fa, ora sono sulla bocca di tutti. Grandi cartelli segnalano i rifugi antimissile e tutti tengono lo sguardo incollato al cellulare, scorrono le ultime notizie sugli attacchi dell’aeronautica in Iran, insieme al bilancio delle vittime dei bombardamenti iraniani su case e città israeliane. Una giovane mamma fa sedere un bambino su una giostra a monetine. Mentre il bambino cavalca un piccolo elefante le chiedo: “Non hai paura di uscire?”. “Con queste quattro pesti ho più paura a restare a casa”, risponde, e indica tre bambini che si inseguono scorrazzando nell’androne del centro commerciale. “E poi nel caso di lancio di missili sappiamo esattamente che cosa fare, dove si trova il rifugio e fino a quando dobbiamo restarci”. Ha i capelli in disordine e sul volto i segni lasciati dalla notte in bianco. Lei non lo sa, ma con il suo asciutto pragmatismo mi ha appena impartito una grande lezione di resilienza, lezione che ancora una volta Israele impartisce al mondo intero. La guerra moderna non distingue tra fronte e retrovia affermava Ben Gurion nel 1951 alla Knesset, presentando il disegno di legge che fondò la Difesa Civile, il primo nucleo sul quale si fonda il Comando militare del Fronte interno, istituito nel 1992 dopo la Guerra del Golfo, che coordina le operazioni di protezione civile, e in questi giorni è in prima linea per garantire la sicurezza della popolazione sotto minaccia missilistica.
Soltanto tre anni dopo la fondazione dello stato, Ben Gurion aveva capito che la disciplina e l’incolumità della popolazione civile sono il presupposto strategico fondamentale per sostenere le operazioni militari sul fronte. Con questo disegno di legge Ben Gurion sottolineava che una società coesa e responsabile è in grado di difendersi in ogni dimensione materiale, psicologica e civile. Il fronte interno sostiene quello esterno e viceversa: si tratta di una mobilitazione integrale, ognuno ha un ruolo. Secondo la visione di Ben Gurion, la protezione civile non è una questione di obbedienza alla legge, ma è sentirsi parte di una missione storica e collettiva. Ogni cittadino in Israele in caso di emergenza deve sapere cosa fare, dove andare, e anche come resistere psicologicamente. Soltanto così si può conservare una parvenza di normalità. Oggi, più che mai, questa ideologia si è trasformata in strategia nazionale, il cuore della resilienza israeliana. Ben Gurion lo sosteneva già nel 1951: Israele sopravvive soltanto se il fronte interno diventa difesa attiva. Viviamo sul cratere di un vulcano, ammoniva alla Knesset, e oggi mentre Israele affronta ancora una volta una minaccia esistenziale, le sue parole risuonano con la forza di una profezia, non semplice retorica ideologica, ma un piano strategico di una nazione che lotta per la propria sopravvivenza, fisica e morale.