Israele e noi occidentali

Affermare una differenza e una memoria incarnata in luoghi, lingue, riti e morti va contro l’alleanza che vuole farla finita con le nazioni

“Bisogna dirlo chiaramente, senza gli artifizi delle anime tiepide che vogliono ancora credere ai compromessi: Hamas non vuole una soluzione a due stati” scrive Charles Rojzman sul mensile Causeur. “Non la vuole, non la può avere, perché il suo orizzonte non è quello delle nazioni, e nemmeno quello dei popoli, ma quello di un universo soggetto alla sola legge di Allah. Al massimo la accetterebbe come un espediente, un ritardo, una pausa strategica: una tappa prima di cancellare lo Stato ebraico dalla carta geografica, prima di dissolvere l’anomalia che è Israele nel grande bagno di un medio oriente musulmano per l’eternità. Per esso, per l’islamismo, Israele non può essere una nazione sovrana, per di più ebraica, ma al massimo un territorio, uno spazio, una porzione di terra dove gli ebrei vivrebbero come dhimmi, sotto il giogo discreto ma implacabile della sharia, tollerati come si tollera l’ombra del passato sulle rovine del presente. La posta in gioco, che non vogliamo vedere – perché la cecità oggi è il lusso supremo delle società stanche –, è che questa logica non si limita al conflitto israelo-palestinese.

È anche all’opera, sotterraneamente, in Europa, in Francia, in quelle vecchie nazioni che sono determinate a negare la propria carne, la propria memoria, il proprio essere. Per l’estrema sinistra, per la sinistra che si lascia trascinare da essa in una vertigine di cui non comprende né l’origine né il prezzo, come per l’islamismo, le nazioni sono finzioni da dissolvere, ostacoli all’avvento di un ordine superiore: quello della umma per alcuni, quello del mercato planetario per altri, quello dell’umanità universale per i terzi. Ed è per questo che capiamo anche perché queste correnti apparentemente molto diverse – islamista, capitalista, rivoluzionaria – si trovino paradossalmente a difendere, in un modo o nell’altro, l’immigrazione di massa, in particolare in provenienza dai paesi a maggioranza musulmana: perché questo diluvio umano, annegando le identità storiche in un’ondata demografica, contribuisce potentemente a dissolvere i punti di riferimento, a cancellare le singolarità nazionali, a rendere i popoli più malleabili, più astratti, più intercambiabili.


Ciò che si vuole cancellare non è solo lo stato ebraico, ma l’idea stessa di stato-nazione. Hamas non vuole uno stato ebraico, ma può benissimo volere uno stato di Israele svuotato della sua sostanza ebraica, così come l’islamismo può benissimo tollerare una Repubblica francese a condizione che non sia più la Francia dei francesi, ma uno spazio astratto, aperto, disponibile per lo sviluppo dell’islam. Perché per l’islamismo, come per gli ideologi della globalizzazione, la nazione non ha alcun significato: ciò che conta è l’unità del mondo, l’unificazione sotto una legge, di mercato o divina, ma sempre ostile alle singolarità storiche, ai patrimoni e ai confini. E non vediamo – e questa è forse la tragedia del nostro tempo, l’incapacità di percepire le linee profonde che strutturano gli eventi – che Francia e Israele sono, in realtà, di fronte allo stesso pericolo: quello della loro cancellazione. Cancellazione sotto la pressione dell’islamismo, che sogna un mondo in cui le altre religioni sono sottomesse; cancellazione sotto la pressione della mercificazione, che sogna un mondo in cui tutto è intercambiabile, commerciabile, dissolto nel flusso; cancellazione sotto la pressione di una sinistra ancora ossessionata dai riflessi del comunismo, che sogna un mondo in cui gli esseri umani sono ridotti alla loro semplice umanità astratta, senza storia, senza memoria, senza identità. In questa inaspettata congiunzione – islamismo, mercato, ideologia universalista – si sta combattendo una battaglia non solo politica, ma metafisica: quella dell’esistenza delle nazioni. Essere una nazione significa dire no all’uniformità, no alla dissoluzione, no alla riduzione degli esseri umani a mere unità di desiderio o di fede. Significa affermare una differenza, una singolarità, una memoria incarnata in luoghi, lingue, riti e morti. Israele, come la Francia e come l’Europa, si trova a un bivio: o si ostina a esistere come nazione, a costo di una lotta dolorosa, solitaria, quasi disperata; o accetta di scomparire, di sciogliersi nel grande magma planetario, di diventare nient’altro che uno spazio senza profondità, senza memoria, senza volto. Spesso combattiamo questa battaglia senza rendercene conto, o credendo che si tratti semplicemente di una questione di convivenza, di giustizia sociale, di ridistribuzione economica. Ma la verità è che si tratta di una lotta ontologica: si tratta di sapere se vogliamo continuare a esistere come popoli, come nazioni, o se accettiamo di essere solo individui senza legami, soggetti alle leggi dell’economia, dell’ideologia o della religione totalitaria. Ecco perché Francia e Israele sono legati da un destino comune che nessuno vuole vedere. Per questo dobbiamo parlare, scrivere e chiamare le cose con il proprio nome contro la marea amnesica del mondo contemporaneo. Per questo dobbiamo, forse, riscoprire quella tragica malinconia che da sempre contraddistingue le civiltà invecchiate ma lucide (…).



La Francia è come quella vecchia casa che abbandoniamo al vento, alla pioggia e all’edera, e di cui contempliamo il lento decadimento con morboso fascino, senza trovare in noi l’energia per ripararla. Israele, da parte sua, sta vivendo una realtà diversa: alcune delle sue élite a volte sognano l’abbandono, ma il cuore del paese continua a resistere, spinto da una gioventù ardente e patriottica pronta a difendere la sua sopravvivenza. Mentre alcune zone di Israele cominciano ad assomigliare al deperimento francese, il resto del paese rimane in allerta, teso, in piedi di fronte alla minaccia. Perché riparare significa sempre ricordare. Riparare è dire: siamo esistiti, abbiamo un passato, abbiamo morti, guerre, lacrime e canti. Riparare è rifiutare l’oblio in cui ci spinge l’epoca. Ma l’epoca non vuole più questo passato. Non lo vuole più perché ostacola, imbarazza, limita. Per l’ideologia del mercato, il passato è un peso morto; per l’ideologia islamista, è un’impurità; per l’ideologia di sinistra, è una colpa. E in questo triplice rifiuto c’è una forma di alleanza, una coalizione inaspettata ma temibile. Israele, in quanto Stato ebraico, incarna lo scandalo del particolare: un’identità storica, religiosa e culturale irriducibile a un universalismo astratto. La Francia, con tutti i suoi tradimenti e le sue abdicazioni, rimane, agli occhi del mondo, una vecchia nazione plasmata da secoli di guerre, letteratura, cattolicesimo, rivoluzioni e fedeltà a sé stessa. E sono proprio queste singolarità che devono essere distrutte. Perché il mondo che sta arrivando è un mondo senza nazioni. Un mondo di flussi: flussi di capitali, flussi di merci, flussi di credenti, flussi di esseri umani ridotti alla loro funzione economica o religiosa”.

Traduzione di Mauro Zanon

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