Desistere dal gender. Diario di Rebecca

Ragazze di 13-14 anni terrorizzate dal destino di diventare donne e che per questo dicono, e credono davvero, di essere maschi. Tante però col tempo riescono a fare pace con il proprio corpo sessuato e si fermano prima degli ormoni e della chirurgia. Questo è il diario di una di loro

Rebecca ha 18 anni. Ragazza perfetta, brava a scuola, ultimo anno delle superiori, vive in una media città del centro Italia, è piuttosto bella e per qualche anno, a partire dai 13, è stata un ragazzo. Abiti maschili, nome e pronomi maschili, petto appiattito. Anche i prof la chiamavano con quel nome da ragazzo che lei adesso non riesce più nemmeno a pronunciare perché – dice – le riscatterebbe l’alarm. La storia di Rebecca somiglia a quella di migliaia di desister, quasi sempre ragazze perfette terrorizzate dal destino di diventare donne, povere creature tanto noiose, niente senso dell’umorismo, semplici oggetti sessuali, stipendi più bassi, terrore che al primo accenno di seno abbiamo provato tutte. Allora dicono di essere maschi. Lo credono sul serio e le famiglie non sanno dove sbattere la testa. Ce ne sono in ogni scuola, in ogni condominio. Ma le desister si fermano prima degli ormoni e della chirurgia. Se riesci a tenere duro, in 8 casi su 10 passa. Lo dice anche la Società italiana di Pediatria: solo nel 12-27 per cento dei casi la disforia permane nel passaggio all’adolescenza. Serve il tempo per fare pace con il proprio corpo sessuato. A Rebecca è andata così. Ma prima è stata la valle di lacrime.

“Non sono stata un uomo da subito. All’inizio ho pensato di essere bisex. Ero una bambina timida, sensibile. Mi prendevano in giro per i capelli corti, le orecchie a sventola. I maschi dicevano che ero brutta, che nessuno mi avrebbe voluta.

“E poi ho incontrato lui, Giulia”. Il Covid, l’isolamento, TikTok. La scelta iniziale dell’etichetta “bisex”: “Era una cosa strana e io mi sentivo strana”. Il rock emo, i vestiti, il taglio dei capelli. “Debutto come ragazzo online”

Una volta mi hanno buttato lo zaino in mezzo alla strada. I miei genitori mi dicevano di non prendermela e io diventavo ancora più furiosa. A 11-12 anni ho avuto lo smartphone. Sono corsa sui social. Cercavo amici e anche post sulle serie, sui libri. Mi piace il fantasy, il rock. Poi un bel giorno mi sono imbattuta nella comunità Lgbtq. Dicevano di quell’attore che era bisex, di quell’altro che era gay eccetera, le etichette erano tantissime. Quando ci hanno chiusi per il Covid avevo 13 anni. Tutto il giorno online. Tra le etichette mi pareva buona bisex. Non c’era una ragione. Non è che mi piacessero anche le ragazze. Mi piacevano i maschi anche se mi sentivo in imbarazzo ad approcciarli. Ma non sentivo un’attrazione reale, non pensavo a che cosa volevo veramente. La sfera intima la vivevo come una cosa imbarazzante e ‘sporca’. Si trattava di quello che pensavo di dover desiderare perché gli altri se lo aspettavano da me.


Mi è piaciuta l’idea di essere bisex. Era una cosa strana e io mi sentivo strana. Alla stranezza ho dato quel nome. Mi sono auto-attaccata l’etichetta. L’ho detto ad alcune amiche dei social e poi anche ad altre nella vita reale. Tante mi dicevano ‘anch’io’, o comunque la prendevano bene. Stavo molto su TikTok e lì era pieno di video di gente che spiegava che cosa voleva dire essere trans o non binary. Lì non ero ancora andata in fissa. Finché non ho cominciato con il rock emo, musica che va molto tra gli adolescenti. Nel giro emo molte ragazze si identificavano come trans o non binary.



Dopo la quarantena il pensiero comincia a martellarmi nella testa: perché non io? Lì per lì ci rido sopra. Poi però mi ritrovo in un gruppo whatsapp e lì c’è una ragazza, Giulia, che dice di essere trans. Stava dalle mie parti, così le propongo di vederci in carne e ossa. Appena la incontro succede qualcosa. Sviluppo una specie di ossessione per lei. La vedo come una divinità. Ha 14 anni, si veste come vorrei vestirmi io, total black, capelli corti con ciuffo che le cade sulla faccia, magrissima: solo più avanti ho scoperto che soffriva di disturbi alimentari (nelle ragazze i disturbi alimentari sono spesso un sintomo associato alla disforia, ndr). Ascolta rock emo, ha un grande senso dell’umorismo. Dice di essere un maschio. Anche per me è un maschio, ma non provo attrazione in ‘quel’ senso. E’ attrazione emotiva, lei mi ricambia. Dice di essere un ragazzo gay, cioè le piacciono i maschi ma da maschio. Come ragazza non mi vuole, ma se fossi un maschio forse le piacerei. Per me è importante che una persona come lei si interessi a me. E’ lì che comincio a pensarci sempre più seriamente. A essere un maschio anch’io, intendo. Debutto come ragazzo online. Mi do un nome. Preferisco non dire quale. Con questa cosa non ho ancora fatto pace, non mi sento di dirlo. Ho paura che tirando fuori il nome potrei staccarmi di nuovo da me.



Lì comincia tutto. Taglio i capelli, cambio vestiti, smetto di truccarmi. Mi schiaccio il seno con la parte sopra di un costume a fascia. Ho fatto i 14 anni, sono all’inizio delle superiori ma non si va ancora a scuola in presenza. La vita sociale è scarsa. Mi vedo praticamente solo con lui, con Giulia. Online il mio essere trans viene preso benissimo. Mi sento approvata, trovo supporto. A casa non si rendono conto di niente: mio padre non sta bene, bisogna girargli al largo per evitare che prenda il Covid, ci sono anche i miei nonni anziani da tutelare. Mia madre è molto stressata. Ognuno vive nella sua bolla. I miei capelli corti non sembrano una cosa strana.


Quando si torna a scuola in presenza ai miei compagni mi presento come ragazzo trans. Anche lì la prendono bene. Mi sento capita, approvata. Scopro che della ventina che siamo in classe ci sono altri quattro come me, quattro trans, tre femmine e un maschio. Un gruppetto di compagni ci dà addosso: ma non funziona! come pensate di fare? vi fate trapiantare i genitali di un morto? Mi chiamano al femminile, con il mio deadname. Anche i prof al momento usano il nome femminile, a loro non ho ancora detto niente. Ma questa mia doppia identità viene accettata.



A scuola un sacco di gente veste in modo originale, per tutti è un modo di esprimere la propria personalità. Secondo il vestito hai un’etichetta: aesthetic, ghotic, dark, academia, emo. Io ero emo. Non puoi vivere senza etichetta.



Verso la fine dell’anno scolastico decido di parlare con qualche prof. Giulia l’aveva fatto – anche lei era in quella scuola ma in un’altra classe – e voglio farlo anch’io. ‘Prof, le volevo dire che ho la disforia di genere, voglio essere chiamata al maschile, voglio che usiate pronomi maschili’. Forse ci rimangono, ma lo nascondono bene. Ok, mi dicono. Mi fanno capire che non cambia niente. Mi sento accettata e approvata anche da loro e perdo ogni imbarazzo. Oggi posso dire che forse avrei preferito che fossero più problematici. Che avvisassero i miei genitori, quanto meno. Ma non l’hanno fatto, non so perché.


I miei non sanno ancora niente. La madre di Giulia invece lo sa. Giulia mi dice che per sua mamma non c’è problema, solo più tardi scoprirò che anche sua madre soffriva molto ma non sapeva cosa fare (oggi Giulia è tornata a identificarsi come ragazza e ha un boy friend, ndr).


A casa parlo con uno dei miei fratelli. Mi sta a fianco da subito, ma gli chiedo di tacere per il momento con i nostri genitori. Però vorrei che anche la mia famiglia sapesse, come quella di Giulia. E’ stato difficile dirglielo, ma forse è stato più difficile quando, un bel po’ di tempo dopo, gli ho detto che volevo tornare a essere una ragazza.


Mi preparo al coming out. Voglio che sia una cosa solenne. Glielo dico una sera d’estate a tavola: sono trans, sono un ragazzo, lo sono sempre stato, voglio che mi chiamiate con il mio nuovo nome. Sembra che la prendano bene. Chiamo subito Giulia: è andata benissimo! Invece per loro è un colpo tremendo ma riescono a nasconderlo. Veniamo a patti sul nome: non mi chiameranno più Rebecca, non vogliono farmi stare male, ma niente nome maschile. Ci accordiamo per un soprannome neutro.



Nei mesi successivi comincio a sentirmi confusa. Mi accorgo che i miei stanno male per me e il rapporto con loro si complica. Dicono di volermi bene come prima ma anche di essere molto preoccupati per me. Quindi non è vero che mi vogliono bene. Accetto la loro proposta di andare da una psicologa e la prima volta ci andiamo insieme. Sono triste perché vedo che soffrono ma anche arrabbiata perché non capiscono che quello che mi sta capitando è una cosa normale. Continuo con la terapia da sola. E’ qui che comincio a stare male sul serio. Ansia, depressione. Comincio anche a tagliarmi. Mi sento rifiutata nella mia autenticità, soprattutto dalla mamma. Penso che la depressione sia per questo. Solo più tardi ho capito che c’era un vissuto depressivo sotterraneo che aspettava solo l’occasione buona per manifestarsi. Ero depressa per una serie di cose: la quarantena, avere perso le amiche cambiando scuola, un cumulo di sentimenti di inadeguatezza, le prese in giro che mi avevano ferito nel profondo.



Mi isolo. Esco solo con Giulia. Dormo pochissimo, sto molto tempo online. Con i miei quasi non parlo più.

Un anno dalla psicologa, che spingeva nella direzione del cambio di sesso. Lo spettro dell’anoressia. La neuropsichiatra che è stata la salvezza. Il periodo “a tentoni: un giorno mi sento maschio, un altro femmina”. La rivelazione: “Tu puoi identificarti come vuoi ma il tuo corpo è e resterà quello di una femmina”

Vado dalla psicologa per un anno. Ma non era una terapia, non era un parlarsi. Lei non ascoltava. Era tutto un teorizzare sul genere, sul cambio di sesso eccetera. Lei era chiaramente ‘affermativa’, spingeva in quella direzione.



Quando ricomincia la scuola mia madre chiede ai prof di chiamarmi con il cognome e non con il nome al maschile. Ma ormai il nome maschile lo stanno usando tutti. Non una vera e propria carriera alias, a quel tempo non esisteva ancora. Lo era di fatto. La scuola aveva accettato e assecondava. Comincio a non sentire più interesse nello studio, io che ero una che si disperava per un 8. Perdo colpi.



Con la psicologa le cose non vanno. E’ incapace di cogliere i segnali. Per esempio le dico del conflitto con i miei genitori e lei mi risponde: ma no, ti sbagli, sono brave persone, ti accettano. Le racconto che mi taglio, ma lei svicola e torna sull’ideologia e sul genere. Tagliarsi è un modo di distrarsi dal dolore che hai dentro, un modo per portarlo fuori: vedi le ferite e hai una prova materiale della sofferenza invisibile che senti. Il meccanismo dell’anoressia è lo stesso, vedere la sofferenza che esce fuori e si manifesta chiaramente nel corpo.



So che Giulia non mangia e provo a non mangiare anch’io. Voglio essere alla sua altezza. Smetto di mangiare e mi sento totalmente in controllo, dimagrisco molto velocemente, in quattro mesi arrivo a essere parecchio sottopeso. Ne parlo con la psicologa, spero che lei coinvolga i miei genitori perché possano aiutarmi. Ma di nuovo: io le parlo dell’anoressia e lei torna costantemente sulla disforia. Le interessa solo quello. A un certo punto propone ai miei genitori di cominciare con la terapia ormonale. Loro si oppongono. Capisco di essere finita in una trappola e a questo punto mi ribello anch’io. Allora lei si decide a parlare con i miei. Mi fa sempre molto male vedere come stanno soffrendo. Dov’è il bene che dicono di volermi?


Decido di mollare la psicologa. Mi rivolgo a un centro per la cura dei disturbi alimentari e lì incontro una neuropsichiatra che sarà la mia salvezza. Lei mi chiama al maschile, ma intanto mi prescrive gli antidepressivi. Non appena mi rendo conto che finalmente la mia sofferenza viene riconosciuta l’anoressia finisce.


L’estate dopo passa abbastanza liscia. Sono le vacanze con i miei a farmi stare male, continuo a sentirmi disapprovata. Alla ripresa dell’anno scolastico incontro una nuova psicologa. Le racconto di quella di prima, le dico che il mio problema è non sentirmi accettata dalla mia famiglia. Però intanto smetto anche di tagliarmi. Mi sento un po’ meglio anche perché in casa non parliamo più di ormoni, quindi il conflitto si riduce. Tutto quello che sapevo sugli ormoni l’avevo letto online, avevo poche informazioni serie. Intanto confesso a Giulia che mi piace. Ci provo, ma lei mi respinge, così finisce che ci allontaniamo. Comincio a frequentare nuove amiche, soprattutto ragazze che si identificano come non binary e non come trans, quindi più femminili di me. A me l’idea di essere femminile faceva molta paura, non volevo essere sessualizzata. Temevo di non essere più considerata intelligente e divertente. Di essere guardata come una persona ridicola. Di sentirmi ‘esposta’ e quindi fragile, senza un rifugio sicuro.


Le nuove amicizie sono molto più stabili e tranquille, sento di non dovere più performare sul fronte trans. Con una tipa in particolare diventiamo molto amiche, frequentiamo anche un corso di musica insieme. La morsa trans si allenta, vedo che anche mia mamma non piange più. Comincio ad avere una vita reale e non solo online. Le cose sembrano andare meglio. In casa non mi sento più costretta sulla difensiva anche se non posso parlare e comportarmi del tutto come vorrei. Continuo a pensare che i miei genitori non mi vogliano bene.



Poi all’improvviso, alla fine della terza, cominciano ad arrivarmi domande che spuntano dal nulla. Vengono a galla da sole. E’ giugno, mi sto rilassando sdraiata a letto e a tradimento arriva il dubbio: quando e come avrei capito di essere trans se non avessi incontrato Giulia? Le difese si allentano, le questioni vengono fuori. Sono al cinema, vedo gli attori sullo schermo e mi domando: vorrei essere come lei o come lui?



Qualcosa non va di nuovo. Fatico a dormire, sono agitata. Per la prima volta mi metto a cercare storie di detransitioner sul web, ma trovo solo roba che non mi piace, gente arrabbiata che odia la comunità trans. Però ne noto almeno un paio che non hanno rotto del tutto con quel mondo. I dubbi si moltiplicano e allora prenoto una seduta extra dalla psicologa. Le dico che mi sembra di essere affetta da una specie di sindrome dell’impostore. Lei mi invita a pensarci con calma e a provare a tornare ai pronomi femminili. Mi rifiuto. Ma ogni tanto rimetto di nascosto vestiti da ragazza, un po’ di trucco. Poi mi guardo allo specchio e mi dico: per carità! no!



Parto per un lavoro estivo e mi sento abbastanza bene nel gruppo. Mi chiamano al maschile e io accetto di avere sentimenti contrastanti su questo. Non li reprimo più. E’ tutto un tira-e-molla, un po’ di mascara e un po’ no. Non dico niente ai miei amici, ho paura che mi trovino noiosa o che si arrabbino con me.



Inizia la quarta. Settembre e ottobre vanno via lisci. A novembre-dicembre riparte la giostra. Comincio ad arretrare: forse non è vero che sono trans. Forse sono semplicemente non binary. Ma è un equilibrio che dura poco. Continuo a non stare bene. Non mi piace come mi vedo allo specchio, odio come sono vestita. Ne parlo alla mia migliore amica, anche lei è una che dice di essere trans. Reagisce con un po’ di stupore ma mi invita ad affrontare la cosa fino in fondo. Giura che non mi mollerà, che se dovrà usare pronomi femminili lo farà.



Ci provo. Vado a tentoni. Un giorno mi sento maschio, un altro femmina, ma il mio nome maschile non lo tocco. Mi riprende un’ansia tremenda. Non dormo più, a scuola non riesco a concentrarmi, penso sempre e solo a quello. Vado a letto vestita e la mattina non mi cambio, smetto perfino di lavarmi. Taccio con tutti gli altri amici, ho paura. Alla fine decido di parlare anche con loro, e vedo che loro non danno troppa importanza alla cosa. La loro reazione mi solleva, ma continuo a sentire che il mondo mi sta cadendo addosso. Allora mi rimetto a cercare e cercare online. Voglio capire bene qual è il mio genere. Ok, ce ne sono tremila, ma come faccio a capire se sono uomo, donna, non binary o cosa? Guardo i video di tutti questi influencer. So anche che esiste un mondo gender critical: vado a vedere, voglio provare a smontare le loro teorie. Ma più guardo quello che scrivono le femministe radicali più mi rendo conto che dicono cose sensate, anche se parole tipo transcult mi fanno stare male. Sul mio diario scrivo un monologo, parlo dei gender critical come di persone che promuovono l’odio: sto solo provando ad autoconvincermi.



Mi allontano da tutti tranne che da questa amica. Sta male anche lei. Ma non posso dirle niente di quello che sto scoprendo, lei è una super woke. Le permetto di usare con me pronomi femminili ma ancora non oso cambiare il mio nome maschile.



Ogni giorno dopo la scuola mi metto sotto una coperta, al buio. Tengo una finestra spalancata sperando di ammalarmi per poter restare a casa. Continuo con le ricerche sul movimento gender critical. Mi arrabbio perché capisco che hanno ragione. Leggo anche articoli di neuroscienze per capire se le donne trans sono davvero donne. E’ devastante scoprire di avere pensato e fatto cose sbagliate per tutto quel tempo.


Il momento in cui tutto cambia è quando mi arriva questo pensiero compiuto: ok, tu puoi identificarti come vuoi ma il tuo corpo è e resterà quello di una femmina. Potrà sembrare strano, ma per me è la rivelazione. Mi rendo conto del fatto che mi hanno raccontato una montagna di bugie. Ma la cosa peggiore è non potermi confidare con nessuno. Sono molto preoccupata per i miei amici che ancora non si sono resi conto della trappola in cui siamo finiti tutti. Vorrei parlare con i miei per dirgli che voglio desistere. Ma ho paura. E’ decisamente peggio di quando gli ho detto di essere trans. Mi sento una grandissima stupida. Ma alla fine mi decido e lo dico alla mamma. Una liberazione. Lei è molto brava. Non mi fa vedere troppo la sua gioia. Mi dice solo che è felice di sapere che mi sono tolta quel peso.


Ho molta paura per gli altri. Due amici hanno già cominciato con gli ormoni. Vorrei dirgli come stanno le cose ma so che mi odierebbero e mi isolerebbero. Mi sento come nel mito della caverna di Platone, le ombre e le cose reali. Ma non posso parlare.


Andare a scuola diventa troppo pesante. Salto per settimane. Temo che mi giudichino pazza. Parlo solo con due o tre che ricominciano a chiamarmi Rebecca. Poi piano piano tutti tornano al mio nome femminile, però capisco che mi guardano storto. La cosa assurda è che voler essere la ragazza che sono sembra più strano che essere il ragazzo che non ero. Mi sento colpevolizzata. Una traditrice. Perdo tutte le certezze, mi isolo di nuovo, non capisco più chi diavolo sono e come sono capitata in quell’inferno.


Comincio a provare una grande rabbia contro l’ideologia che mi ha sommerso di bugie. Ricomincio a vestirmi da ragazza ma sono molto impacciata. Mi sento inadeguata, un fenomeno da baraccone. Poco interessante, poco originale, una ragazza noiosa come tante. E’ da lì che avevo voluto scappare, da quell’essere noiosa. Allora comincio a pensare che forse sono lesbica. Ho bisogno di qualcosa, altaleno tra le etichette per un bel po’. Poi capisco che è inutile piangere sul latte versato. Spero solo che gli amici non mi mollino.



Comincia la quinta. Non sento più di dover fingere, anche se resta la paura che mi giudichino bigotta. Provo una grande rabbia nei confronti dei medici che ti ‘affermano’ e di tutti quelli che mentono. Combatto per dare un senso a quello che mi è capitato. Quella storia è finita e adesso devo fare una ricerca sulla verità di me. Sono stata la preda perfetta perché sono molto sensibile e mi sono sempre fatta un sacco di domande su me stessa. Noi ragazzi non siamo capaci di vivere senza etichette, le cose ti capitano intorno così velocemente, c’è tutta questa tecnologia che corre, non riesci a trovare punti fermi. Fatichiamo a capire qual è il nostro posto nel mondo e cerchiamo un’appartenenza. So che tutto questo l’ho voluto io ma è difficile dire com’è andata davvero.



Non so chi sia stato a voler fare di me una preda. Non so chi non so perché. Non so se c’è un capo del mondo che decide queste cose. Certo, gli attivisti di questo movimento sono tutti adulti e ognuno ha il suo interesse da perseguire. So anche che si fanno molti soldi su queste cose e più persone aderiscono a questa ideologia, più tutto diventa credibile. Per questo cercano prede perfette tra noi ragazzine, anche se oggi sto vedendo un po’ di marcia indietro.



Molto lentamente mi pare che le cose stiano cambiando. Tante persone che conosco hanno desistito come me. E i ragazzini più piccoli sono stati meno colpiti di chi è stato adolescente durante la pandemia. Forse questa follia sta per finire. Tutto questo dolore”.


Qualcuno nel mondo gender critical propone di non parlare più di disforia di genere, per queste bambine e ragazze, ma di Angoscia da sessuazione pubertaria (Asp). Cambiano le parole e cambia tutto. La partita si gioca in gran parte sul linguaggio.

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