Cervelli in fuga, non solo da Trump. Storie di traslochi e spostamenti

Dal miracoloso salvataggio del giovane William Harvey a Dover alla fuga di Einstein dalla Germania nazista, la storia della scienza moderna è un racconto di migrazioni, persecuzioni, opportunità e scoperte. Gli scienziati hanno attraversato confini e regimi per inseguire il sapere, dimostrando che quella della ricerca è una lingua internazionale

Quando il dottor Harvey (membro del collegio di medici di Londra) fece in gioventù un viaggio a Padova, andò a Dover e mostrò il suo passaporto, come fecero altri, al governatore del porto. Il governatore gli disse che non poteva continuare il viaggio, perché doveva trattenerlo prigioniero. Il dottore voleva sapere: per quale motivo? Per quale trasgressione? Ebbene, perché così gli piaceva. Il battello postale levò le vele quella sera (che era bella serena) con i compagni del dottore. Si scatenò una terribile tempesta, e il battello postale e tutti i suoi passeggeri affondarono. Il giorno dopo la triste notizia giunse a Dover. Il governatore non sapeva chi fosse il dottore, né di nome né di volto; ma la notte prima aveva avuto una perfetta visione, in sogno, del dottor Harvey, che arrivava a Dover diretto a Calais, e che nel sogno gli era stato ingiunto di trattenerlo. Questo il governatore raccontò al dottore il giorno dopo. Il dottor Harvey era un uomo buono e pio, e diverse volte ricordò questa storia a persone di mia conoscenza” (John Aubrey, Vite brevi di uomini eminenti, 1898, Adelphi).

Così, l’interruzione forzata del viaggio da parte del governatore del porto salvò il medico William Harvey dal naufragio e gli permise di raggiungere, seppur in ritardo, la sua destinazione padovana. Harvey giunse a Padova nel 1599, a ventun anni, dopo aver iniziato gli studi a Cambridge, per seguire le lezioni di Girolamo Fabrici d’Acquapendente, considerato all’epoca il più grande anatomista europeo. “Ogni anno, in ottobre” scrive Steven Johnson “nel giorno di San Luca (con l’arrivo del freddo i cadaveri duravano di più), le lezioni di medicina cominciavano con una messa solenne, al termine della quale gli studenti si appollaiavano sui palchi del teatro di anatomia per assistere alla visita guidata all’interno del corpo umano che Fabrici e i suoi assistenti conducevano, bisturi alla mano”. Conseguita la laurea in medicina nel 1602, Harvey tornò a Londra dove divenne a sua volta docente e in seguito rivoluzionò la concezione della circolazione sanguigna con il suo Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus (1628). Il suo ritratto campeggia tra i quaranta studenti stranieri illustri nella sala che precede l’Aula Magna dell’ateneo padovano.

Oggi, anche in relazione ai cambiamenti nel contesto politico internazionale, si parla molto di “fuga e rientro dei cervelli” e di come attrarre in Europa studiosi potenzialmente interessati a lasciare gli Stati Uniti dell’èra Trump. Ma la scienza moderna nasce già come impresa portata a travalicare i confini nazionali. Utilizza infatti una lingua comune (dapprima il latino, poi il francese, oggi l’inglese) e vede fin da subito gli scienziati in movimento. Alcuni si spostano per attingere all’insegnamento di grandi maestri, come nel caso di Harvey. Altri per sviluppare idee e metodi innovativi e seguire nuove opportunità professionali. E’ questo il caso di un’altra figura rivoluzionaria nella storia della medicina, il medico Andries van Wesel (Andrea Vesalio), che da Lovanio si trasferì dapprima a Parigi, poi a Basilea e infine a Padova, dove appena ventitreenne il Senato di Venezia gli assegnò la cattedra di anatomia e chirurgia. Qui iniziò a concepire il suo capolavoro De humani corporis fabrica (1543), per poi assumere l’incarico di medico alla corte dell’imperatore Carlo V. Talvolta le opportunità erano legate anche alla protezione di sovrani illuminati. L’astronomo e matematico tedesco Johannes Kepler, ad esempio, si trasferì a Praga per lavorare con il maestro dell’osservazione astronomica Tycho Brahe e alla morte di quest’ultimo, nel 1601, gli subentrò come matematico imperiale alla corte di Rodolfo II.

Nei secoli successivi gli spostamenti degli studiosi si estendono anche grazie a nuovi e maggiori sostegni finanziari. Il biologo e geologo svizzero Louis Agassiz poté visitare per la prima volta gli Stati Uniti nel 1846 grazie a un finanziamento del re di Prussia: qui trovò terreno vergine per le proprie idee innovative sulla storia della geologia e le antiche glaciazioni, oltre a condizioni economiche vantaggiose, e rimase ad Harvard per il resto della vita. Con molti meno mezzi – un piccolo gruzzolo accumulato lavorando come governante in famiglie benestanti – partì da Varsavia verso Parigi a ventiquattro anni Marie Curie. Voleva proseguire gli studi scientifici, e le donne non erano ammesse all’Università di Varsavia. Alla sua patria d’origine, che all’epoca è una provincia dell’impero russo, intitolerà il nuovo elemento scoperto con il marito Pierre una decina di anni dopo, il “polonio”, ricevendo per le sue ricerche ben due premi Nobel, uno in fisica e uno in chimica.

Ma la migrazione più significativa di “cervelli” – per quantità e qualità delle menti coinvolte – avviene indubbiamente a partire dagli anni Trenta del secolo scorso. “Non si era visto un simile esodo di artisti e scienziati dai tempi della caduta di Bisanzio” secondo lo scrittore Arthur Koestler. Il paese più coinvolto è la Germania: dall’Università di Göttingen, tra epurazioni e trasferimenti volontari, sparisce nel giro di poco tempo un quarto del corpo docente. A fuggire sono soprattutto gli scienziati di origine ebraica. Il primo a capire che la situazione si metterà male per loro è il fisico ungherese Leo Szilárd, allievo di Einstein. Szilárd prevede l’ascesa al potere di Hitler già nel 1931, due anni prima che essa avvenga, “non perché la rivoluzione nazista fosse particolarmente forte, ma perché non ci sarebbe stata alcuna resistenza”. Nel 1933 è già a Londra, e poi da lì si sposta negli Stati Uniti. Con lui un manipolo di ebrei ungheresi tanto brillanti (tra questi Edward Teller, Eugene Wigner, John von Neumann) da meritarsi l’ironico appellativo di “marziani”. E’ lo stesso Szilárd a coniare il soprannome, in risposta al celebre paradosso di Fermi: “Se l’Universo pullula di alieni, dove sono tutti quanti?” “Sono in mezzo a noi” – risponde Szilárd – “dicono di chiamarsi ungheresi”.

Il 17 ottobre 1933, il transatlantico Westmoreland giunge nel porto di New York. Ma il piccolo comitato di benvenuto rimane deluso. Non c’è traccia, infatti, dell’illustre passeggero che attendono. Albert Einstein, con la seconda moglie Elsa, l’assistente Walther Mayer e la segretaria Helen Dukas, è stato fatto scendere in segreto per sottrarlo alla curiosità dei cronisti e a potenziali minacce, ed è già in viaggio verso Princeton. Sono partiti come per uno dei tanti viaggi di lavoro del fisico, ma davanti alla loro casa di Caputh, vicino a Berlino, con la valigia in mano, Einstein ha detto alla moglie: “Guardala bene, non la rivedrai mai più”. Einstein meditava di lasciare la Germania fin dal 1922, dopo l’assassinio dell’amico e ministro degli Esteri Walther Rathenau e l’ostilità crescente da parte di alcuni influenti fisici tedeschi verso la teoria della relatività generale e verso la sua figura. Le offerte dalle più prestigiose università non gli mancavano (nel 1923 gli era stato offerto anche un posto in Italia). Ma a convincerlo alla fine è stata la corte serrata di Abraham Flexner, che in Einstein vedeva il candidato ideale per dar lustro alla sua nuova creatura, l’Institute for Advanced Studies di Princeton. Arrivato a destinazione, insofferente come sempre alle imposizioni altrui, Einstein esce subito dall’albergo ed entra in una bottega chiedendo (a gesti, giacché il suo inglese è ancora approssimativo) un cono gelato e un quotidiano, dove legge sogghignando i titoli sulla propria misteriosa scomparsa.

Nello stesso anno, in maggio, il fisico Max Planck, presidente della Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft, incontra il nuovo Capo di stato Adolf Hitler. Planck fa presente a Hitler che allontanare gli scienziati ebrei significa di fatto amputare la scienza tedesca e fa notare che alcuni di loro, come Fritz Haber, hanno anche dato un contributo importante allo sforzo militare tedesco nella Prima guerra mondiale. Il Führer risponde che “non ha nulla contro gli ebrei in quanto tali, ma che sono tutti comunisti e come tali li deve combattere”. Quanto alla prospettiva di una scienza tedesca mutilata, secondo alcuni resoconti Hitler sbuffa: “Pazienza, faremo a meno della scienza per un po’”; secondo altri chiude brutalmente la conversazione.

Di lì in poi le fughe di scienziate e scienziati divengono avventurose e tragiche: la fisica austriaca Lise Meitner fugge da Berlino nel luglio del 1938 con i soli vestiti che indossa, dieci marchi e un anello di diamanti da vendere in caso di necessità, dono del suo fino ad allora inseparabile collega Otto Hahn. Per Enrico Fermi, la cui moglie è ebrea, si rivela provvidenziale il premio Nobel: vola a Stoccolma per ritirarlo nel 1938, e da lì prosegue verso gli Stati Uniti.

Non mancano anche i casi di defezione dall’Unione sovietica. Il fisico George Gamow (all’anagrafe Georgiy Antonovich Gamov) tenta di scappare per due volte addirittura in kayak, prima verso la Turchia, poi verso la Norvegia. Alla fine ci riesce nel 1933, approfittando di un invito al Convegno Solvay a Bruxelles.

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il flusso di cervelli verso gli Stati Uniti non si arresta, ma la motivazione dominante non è più la fuga da regimi autoritari. E’ iniziata infatti l’era della cosiddetta “Big Science”. La politica, in primis quella americana, vede ormai nella scienza “una gallina dalle uova d’oro” (così l’ha descritta l’ingegnere Vannevar Bush in uno storico rapporto redatto per il Presidente Franklin D. Roosevelt nel 1945, Science: The Endless Frontier) da nutrire con generosità per raccogliere copiosi risultati in campo militare, tecnologico e medico. Ad attirare i giovani ricercatori stranieri non è solo la disponibilità di finanziamenti per i propri studi, ma un’organizzazione del lavoro più snella e aperta all’innovazione e alla collaborazione interdisciplinare. Così è ad esempio per il futuro premio Nobel Renato Dulbecco quando si trasferisce prima al Caltech di Pasadena e poi al nuovo Salk Institute di La Jolla. Un aspetto, questo, spesso trascurato anche nell’attuale dibattito sull’attrazione di cervelli in Europa: oltre alle risorse economiche (che dovrebbero essere stabili e di lungo periodo) si dovrebbe offrire un contesto di lavoro e di ricerca meno burocratizzato di quello attuale, con agenzie indipendenti comparabili alla National Science Foundation (un altro risultato della pionieristica visione di Bush).

Tuttavia l’integrazione nelle università americane non è sempre stata facile, soprattutto per alcune scienziate. Né la fisica di origine polacca Maria Göppert, né la biochimica ungherese Katalin Karikó riuscirono mai ad avere una posizione accademica stabile negli Stati Uniti. La prima emigrò negli anni Trenta dopo il matrimonio con il chimico Joseph Mayer; la seconda vendette l’automobile e cucì tutti i soldi che aveva (poco più di mille dollari) nell’orsacchiotto della figlia per lasciare l’Ungheria negli anni Ottanta. Entrambe poi ricevettero tardivo ma significativo riconoscimento per il proprio lavoro con il premio Nobel (a Göppert quello per la fisica nel 1963, a Karikó quello per la medicina nel 2023).

Einstein ricevette la cittadinanza americana nel 1940 e non mise più piede fuori dagli Stati Uniti fino alla sua morte nel 1955, restando ad abitare nella piccola casa al 112 di Mercer Street a Princeton. Continuò sempre a credere nel carattere internazionale della scienza, di cui aveva sperimentato personalmente gli aspetti più gratificanti: gli anni poveri e felici delle prime scoperte a Berna mentre lavorava come impiegato di terza classe all’ufficio brevetti; quelli della consacrazione con le cattedre a Praga, Zurigo e Berlino e le trionfali tournées in giro per il mondo; quelli del placido ritiro americano. Ma anche gli aspetti più amari dell’ostilità e della discriminazione nazionalista. Come scrisse nel 1919 sul Times di Londra, suggerendo “un’applicazione della teoria della relatività al gusto dei lettori […] oggi vengo descritto in Germania come un ‘sapiente tedesco’ e in Inghilterra come un ‘ebreo svizzero’. Se mai il mio destino dovesse essere quello di essere rappresentato come una bestia nera, dovrei, al contrario, diventare un ‘ebreo svizzero’ per i tedeschi e un ‘sapiente tedesco’ per gli inglesi”.

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