L’abisso tra il narcisismo di oggi e l’indagine interiore dei grandi della letteratura

Un saggio di Dorrit Cohn riapre il dibattito sulla rappresentazione della coscienza nel romanzo. Chiusa nel culto dell’io, la letteratura contemporanea ha smarrito la profondità psicologica e la forza narrativa dei grandi maestri del passato

Uno spettro si aggira per il romanzo italiano, lo spettro dell’io. Chiunque si avvicini alla narrativa contemporanea italiana, ma si tratta di una tendenza oramai universale, si accorgerà facilmente di come molte di queste storie trovino origine e sviluppo dentro un solipsismo esagerato, permeate dall’idea che tutto ciò che un lettore possa volere da un romanzo sia una voce monocorde, profondamente reclinata su sé stessa, piatta nel suo ondeggiare tra rimpianti e ambizioni che si risolvono esclusivamente nel privato. Non che la letteratura debba per forza ambire a un afflato universale, né abbia sostanza solo quando costeggia il capolavoro, ma è indubbio che questo processo di ripiegamento, questa “fuga dal sociale in un’età di disillusione collettiva”, come scriveva il sociologo Christopher Lasch, è spia di quel processo di scivolamento verso l’individualismo che campeggia nella sopravvalutazione dell’io riscontrabile in tanta letteratura contemporanea. Proprio Lasch in La cultura del narcisismo, un saggio fondamentale per capire come la società sia giunta a fare del narcisismo il suo elemento caratterizzante, parla di come i sogni di fama e gloria incoraggino “l’uomo comune a identificarsi con gli idoli dello spettacolo e a odiare la “massa”, moltiplicando le sue difficoltà ad accettare “la banalità dell’esistenza quotidiana” e questo si trasforma, nella trasposizione romanzesca, nel vuoto monologo a cui si accennava.

Viene adesso tradotto in italiano un saggio della critica Dorrit Cohn (Menti trasparenti, Carocci, traduzione di Gloria Scarfone) incentrato sul modo in cui i grandi narratori dell’Ottocento e del Novecento hanno dato voce alla vita interiore dei loro personaggi, affinando in maniera quasi miracolosa la possibilità di trasformare in letteratura l’ondivago procedere del pensiero, attraverso ciò che viene definito da Cohn di volta in volta “psiconarrazione” (un neologismo che indica “sia l’oggetto sia l’attività che denota”, il discorso del narratore sulla coscienza del personaggio), “monologo citato” (per uscire dalla risacca in cui monologo interiore e flusso di coscienza si mescolano, “il discorso mentale di un personaggio”) e “monologo narrato” (“il discorso mentale di un personaggio sotto forma di discorso del narratore”). Menti trasparenti mette bene in luce l’abisso che si apre tra un certo tipo di narrazione psicologica e i suoi derivati contemporanei, ma il saggio è anche una prova eccezionale di quanto si possa rimpiangere una critica pura basata sui testi, oggi spesso abbandonata a favore di un minestrone sociologico, e di quanto un testo accademico possa risultare fruibile senza perdere la sua scientificità (si veda la descrizione della scrittura diaristica in Sartre quando questa aveva perso il suo fascino, “La nausea di Sartre è il classico caso di vino nuovo in una bottiglia vecchia. Ma si tratta di un vino talmente fermentato che continua a rompere la bottiglia”, o l’acuminata e straordinaria disamina del passo dal “tono convulso ed emotivo” di Penelope nell’Ulisse di Joyce). E allora dopo aver letto le pagine di Cohn su James Joyce, Virginia Woolf o Thomas Mann, si comprenderà un po’ meglio questo enorme equivoco sull’io che ha contagiato tanta letteratura contemporanea, rendendo evidente che non è sufficiente utilizzare un monologo in prima persona o un languido “io interiore” per essere automaticamente in grado di restituire sulla pagina la psicologia umana e i suoi complessi meccanismi. A costo di sembrare reazionari, sarà meglio tornare allora a Stendhal, Dostoevskij e Proust!

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