Un memoir ironico e profondo, in cui Patrizia Sardo racconta la moda come salvezza, l’amore come progetto condiviso e se stessa come presenza autonoma e mai ancillare. Una dichiarazione d’identità, stile e resistenza affettiva lunga quarant’anni
Patrizia Sardo, moglie e socia di antoniomarras tutto attaccato, brevetto anche sentimentale, è in libreria da ieri mattina con un memoir sulla letteratura, sulla Sardegna e sul ruolo salvifico del vestirsi che “ti tiene in piedi anche quando il letto diventa una calamita e il mondo una minaccia. In quell’armadio, c’è una piccola festa silenziosa che aspetta solo me. E allora mi vesto. Sempre.
Sposarsi con un marchio registrato. Bisognerebbe iniziare da qui. Da quell’idea bizzarra e meravigliosa di contrarre matrimonio non con un uomo, ma con un simbolo grafico, un’emanazione, un logo vivente: “antoniomarras” – rigorosamente minuscolo, rigorosamente tutto attaccato. Patrizia Sardo Marras lo nomina sempre così, anche nel nostro incontro su Zoom, anche nel memoir che da ieri è nelle librerie, edito da Bompiani, “La moda non è un mestiere per cuori solitari”. “Veramente la stesura era in un file registrato come “Romanzo criminale”, ma poi mi sono resa conto che non era il caso: invece, volevo intitolarlo seriamente “Volevo essere la moglie di Bruce Chatwin e invece ho sposato antoniomarras”, ma l’editor non era d’accordo”. È sorprendente, quasi un po’ scortese, che accanto alla denominazione maritale non pretenda il simbolo ®, come a volerlo proteggere da tentativi d’imitazione, come a dire: è mio, è unico, ed è anche una costruzione narrativa, estetica e logistica che va tutelata con la tenacia con cui si custodiscono gli archivi di moda, perché l’amore è anche un brevetto sentimentale, un sigillo affettivo, un’operazione d’incollaggio che li tiene uniti da quasi mezzo secolo. Ovvero quando, da giovane, lui sulla carta d’identità, alla voce “professione”, aveva scritto “commerciante”, perché il padre possedeva la boutique più elegante dell’Alghero bene, quella delle signore con le perle vere e le estati lunghe.
Lei, poco più che ragazzina, veniva da un’Alghero altrettanto altoborghese, ma con una fame di mondo che non si distribuiva in boutique, bensì in letture e lunghi, appassionati scritti che l’hanno poi portata a laurearsi in lingue e letterature straniere: primo amore, i mattoni dei grandi scrittori russi, “perché sono un’inguaribile romantica, anche se faccio finta di no”, seguiti dalla letteratura inglese cui è debitrice di un humour very british che non confligge minimamente con quel sentire tra la devozione e il fastidio per la terra natale di entrambi, la Sardegna. “Che poi, quando io volevo andarmene, adoro Londra e Parigi, con antoniomarras facevamo viaggi faticosissimi pur di tornare ad Alghero: adesso che a me piace restare un po’ di più a casa, a lui è venuta voglia di trasferirsi a Milano. Abbiamo ritmi circadiani e psicologici agli antipodi, da sempre. Meglio così”. In mezzo a tutta questa intelligenza coltivata, questo amore articolato e questo disincanto selezionato, c’è ovviamente un’estetica. Perché Patrizia non è solo parola: è immagine che si è pensata, la sua personale dichiarazione di stile. Non a caso, in ogni sua biografia c’è scritto che non esce mai senza rossetto. Detesta il minimalismo esasperato, adora gli anni Quaranta e Cinquanta, “mentre lui è ossessionato dagli Ottanta, che detesto”. Oggi è perfetta. Un tailleur blu – un blu esatto, definito con la perentorietà con cui si definisce un confine – sotto cui spunta una t-shirt marinière a righe bianche e blu, a dichiarare una certa idea di classicismo francese ma con spirito isolano. In testa una toque, intonata, decorata con una spilla gioiello dal sapore rétro. E i capelli biondi (non biondissimi, ma di quel biondo adulto che sa di controllo) sono raccolti in trecce che fingono ingenuità ma sono, in realtà, architettura.
Non c’è nulla di casuale in lei, ma tutto sembra inevitabilmente naturale. Come se la forma fosse da sempre parte della sostanza. “Ma lo è, e per davvero”, sorride. Nel libro lo scrive senza giri di parole, e lo ripete anche a voce: “Gli abiti mi hanno salvato la vita”. Non le sembra di esagerare? “È un fatto. Quando lo ribadisco non parlo di abiti solo di antoniomarras, sia chiaro. Parlo proprio dei vestiti. Di cosa ti possono fare, quando ne hai davvero bisogno. Di come ti tengono in piedi anche quando non ne hai voglia, quando il letto diventa una calamita e il mondo una minaccia. A me il solo pensiero di alzarmi per indossare qualcosa mi salva. Non esagero. Ma poi ricordo che là, in quell’armadio, c’è una piccola festa silenziosa che aspetta solo me. E allora mi vesto. Sempre. Anche se resto in casa. Anche se cucino. Mia zia mi guarda e dice: “Ma tu cucini col cappello?” E sì, se capita anche con la bombetta: un gioco, sì, ma è anche un modo di tenermi insieme”. La parola “funzionalità” la fa rabbrividire. “C’è chi dice che un abito debba essere comodo, pratico… Ma stiamo scherzando?”. E racconta di un documentario su Céline Dion, che come lei comprava scarpe anche di due numeri più grandi o più piccoli, se erano belle. “Io pure. Posso mettere dal 36 al 39. Se mi piace, mi piace. Il comfort è l’ultima cosa che guardo. Non mi interessa. Non mi riguarda. Non è una categoria del mio pensiero”.
In tutti questi anni, non ha mai fatto solo la moglie. Né la musa, né la socia. Ha fatto qualcosa di molto più raro e più pericoloso: ha fatto sé stessa, accanto a un creativo di fama mondiale, senza mai diventare la sua ombra, né pretendere i riflettori. Chiediamo se, nella loro complicità creativa, non si sia mai sentita un passo indietro, un po’ in ombra: una figura laterale a favore della grande narrazione antoniomarras. Ride. Ma non per schivare la domanda, ma perché la trova priva di peso. “Le devo dire la verità? Io l’ho sfruttato ampiamente, ma proprio con disinvoltura. Sono sempre stata bravina in tante cose, ma non bravissima in qualcosa di specifico. Non so disegnare, preferisco sia antoniomarras a scegliere i tessuti, ho imparato a cucinare bene a quarant’anni… Insomma, non ho grandissimi talenti con cui sono nata. Quindi non mi ha mai sfiorato nemmeno per sbaglio il pensiero di starci male. Se fossi stata il tipo da soffrirne, mi sarei suicidata ventimila volte. Ma lui è il primo a non preoccuparsene. Non perché sia egoista: no, è proprio che non ci pensa. E io pure. Non mi interessa. Non è mai stato un problema. Deve essere sempre il principe, egoriferito com’è. Non si preoccupa nemmeno di farmi sedere, né di versarmi il vino. Una volta Geppi Cucciari mi ha detto che non uscirebbe mai con un uomo che non le versa il vino a tavola: allora sarei morta disidratata da tempo. Poi, per dire, nelle interviste… È bravissimo.
A parlare, a gestire, è un fuoriclasse. Io mi sono sempre tenuta un passo indietro. Ma non per strategia. Non me n’è mai fregato niente di essere al centro. Il PR che avevamo a Parigi, quando mio marito era direttore creativo di Kenzo – un personaggio incredibile, tipo cortigiano di Versailles, spiritoso da morire – mi disse che ero perfetta come compagna perché non rubavo mai la scena. Ma io non ci pensavo neanche. Non era una posa, era proprio così”. Poi si fa un attimo più seria. “Non sono mai stata gelosa. Né di lui, né del suo successo. Non è merito mio, è proprio una mia tara biologica: la gelosia non mi appartiene. Ho sempre avuto una mia personalità, una mia voce. Per anni, per esempio, ho odiato farmi fotografare. Ho interi periodi senza una foto. Ora è diverso: con Instagram mi diverto, metto le mie cose. Ma per tanto tempo non ho voluto apparire, punto”. Parla anche di come sono cambiati, insieme. Di una stagione in cui facevano tutto a quattro mani – e di come ora si siano un po’ separati, non nei sentimenti ma nelle traiettorie. “Adesso faccio anche cose mie, che mi piacciono. E quando lui non c’è… a volte dico: meno male, così me la godo da sola”. Si ferma, sorride. “Ci siamo amati moltissimo, ci amiamo tuttora. Ma non c’è mai stato annullamento. Né mio, né suo. Solo una forma raffinata di dipendenza reciproca. Che oggi, forse, è diventata libertà”. In che senso? “Per esempio, quando ho compiuto sessant’anni mi sono concessa un viaggio in India per celebrare il mio compleanno. Ero molto intimorita dall’idea di non andarci con lui, ma i nostri figli Efisio e Leonardo, che devo ammettere sono sempre dalla mia parte, hanno decretato: “Ma ti vuoi rovinare la vacanza?”. E giù a ridere”.
A proposito, com’è stata la recensione del memoir da parte di antoniomarras? “Ma le pare che l’abbia letto? Non legge mica i PDF”. Lo enuncia come se il formato file fosse una diagnosi infausta. “Gli ho chiesto: “Leggilo, almeno per vedere se c’è qualche refuso, se ho scritto qualcosa di troppo vero”… Ma niente. antoniomarras ha un rapporto con la lettura, come dire, molto meditativo. Se per noi, me o lei, un articolo dice “tempo di lettura: cinque minuti”, per lui sono cinquanta. Figuriamoci un libro intero. Mi ha detto: “No, mi fido.” Capisce? “Mi fido”. È il suo modo di dire “non ho tempo, ma ti voglio bene lo stesso”. E in effetti non è che lui abbia avuto bisogno di leggerlo per sapere che non esce male. E comunque non l’ho fatto vedere neanche a nessun altro. Niente comitati lettura. Niente amici-sensibili. Solo l’editore e basta. E chi ha fatto la copertina: un mio ritratto dell’amica fotografa Daniela Zedda, mancata troppo presto, elaborato da Paolo Bazzani, amico e braccio destro per le scenografie, gli inviti, l’architettura delle boutique”.
Quando le nominiamo il femminismo, l’aria che assume è quella di chi si prepara a mettere ordine in una conversazione disordinata. “Gli inglesi”, assicura, “hanno avuto Virginia Woolf. E già solo per questo sono in vantaggio. Perché, secondo me, è ancora la più moderna di tutte. Per i temi, certo, ma soprattutto per come scriveva. “Una stanza tutta per sé” è ancora oggi una delle grandi occasioni per cui dobbiamo parlare di differenza, di conquiste non ancora compiute. Si rende conto? È il 2025, e siamo ancora lì”. Fa una pausa e affonda: “Parliamo ancora di “sorellanza”, come se bastasse. Una parola che non amo, sinceramente. Io ho visto donne vere, con vite vere, distrutte da uomini mediocri. Vite da galera, non metaforicamente. E non tutte hanno avuto la possibilità, o anche solo lo spazio mentale, per ribellarsi”. Quando proviamo a spostare il discorso sulla sua, di ribellione, ci interrompe: “No, no. Io ho già vinto. Il mio sogno, l’ho scritto anche nel libro, era “Salvare il soldato antoniomarras”. E ce l’abbiamo fatta. Lo sa: la moda è cinica, è crudele. Quando entrano capitali altrui, i fondatori si trovano senza più voce in capitolo – com’è successo a Missoni e ad altri. Io ero pronta a fare le valigie pur di veder sopravvivere il lavoro”.
Nel 2022, Antonio Marras e il Gruppo Calzedonia hanno firmato un accordo per l’ingresso dell’azienda veneta nel capitale della società di antoniomarras: il deal ha compreso l’acquisto da parte del gruppo veneto dell’80 per cento dell’azienda e investimenti adeguati al rilancio del marchio. “Abbiamo trovato in Sandro Veronesi un socio che crede nel nostro lavoro. Mio, di antoniomarras, dei miei figli che lavorano con noi. In un anno, si è realizzato un piccolo miracolo. Dieci negozi: New York, Costa Smeralda, Milano…”. A un certo punto, la vediamo armeggiare con qualcosa fuori campo. Spunta un tesserino da ufficio. Proprio uno di quelli da timbrare, da catena di montaggio. E allora glielo domandiamo: veramente l’accordo con Calzedonia è così idilliaco? “La moda, purtroppo o per fortuna, non è un lavoro normale. È un lavoro che, per funzionare, richiede qualcosa di più: passione, tempo, cuore. Devi esserci, sempre, anche se nessuno ti chiama. Il tesserino – perché sì, adesso ce l’abbiamo – è una necessità di struttura. Ma non può sostituire quello che ci ha portati fin qui”. Lo mostra. “Timbro anch’io. Ma certe cose non si possono timbrare. La bellezza, la visione, l’insistenza, non li puoi impiegare a orari prestabiliti. Se avessimo fatto questo mestiere solo con la testa o con la logica, non esisteremmo: quel che abbiamo costruito era perché potevamo contare su una squadra di fuori di testa. Persone che hanno creduto in me anche quando ero io l’unica garanzia sul conto. Gente che ha lavorato senza stipendio, che ha aspettato fidandosi che io avrei restituito tutto. Altri, invece, hanno chiuso le porte. Le banche, certi fornitori, quelli che fanno i conti prima dei saluti. Adesso ritornano, col sorriso. Sorrido anch’io, ma non dimentico. Quarant’anni dopo, se siamo ancora qui, è perché c’è stato il cuore. Il mio, quello di antoniomarras, ma soprattutto quello degli altri. Una tribù di testardi che ci hanno creduto. E che ci hanno messo l’anima, non il badge”.