Tra karate e calligrafia, la scrittirce affila lo spirito: meno parole, più corpo, perché solo un cuore indomito può sfidare l’algida dittatura della mente
Potrebbe dire, con W. B. Yeats, che una spada “posa accanto alla carta e alla penna/ perché moralizzi i miei giorni/ e non li lasci privi di scopo”. Susanna Tamaro, dopo quasi quaranta libri pubblicati e quarant’anni di arti marziali, mette queste al primo posto perché “la scrittura non ha più la stessa urgenza” e “a quest’età è più importante allenarmi”: lo fa con il karate stile Goju-ryu, cui ha dedicato le maggiori energie e che ha anche insegnato ma non rinunciando a imparare altre discipline orientali. Al centro fra scrittura e kata c’è un ideogramma cinese, un radicale di soli quattro tratti ma reputato di ardua esecuzione dai calligrafi: Xin, ossia cuore, che si ritrova nel titolo del più celebre libro di Tamaro e ricorre costante nei suoi volumi e nei discorsi.
Lei ha affermato: “Non sarà certo il buco dell’ozono o il riscaldamento climatico a porre fine ai nostri giorni bensì quello, molto più devastante, della cancellazione della nostra anima”. Eppure riferirsi al “cuore”, se non è un emoticon o un refrain sanremese, in molti suscita imbarazzo.
Sin da “Va’ dove ti porta il cuore” so quanto sia pericoloso citare quest’organo così reietto nella nostra civiltà imperniata su testa e volontà, mentre nelle culture orientali e nel mondo biblico il cuore era al centro del mondo. Siamo noi che lo abbiamo trasformato in un vocabolo svenevole. Consiglio di leggere il classico giapponese “Hagakure”, che per me è stato ispiratore.
Perché si sottovaluta il cuore?
Per sottrarci umanità, perché un cuore illuminato è indomabile. A differenza della mente, un cuore consapevole non si può facilmente imbrigliare, sicché in un mondo sempre più concentrazionario la sua indipendenza risulta intollerabile. Ma l’intelligenza da sola non basta, chiusa nella scatola cranica come una prigioniera che ascolta il proprio rimbombo. La mente si libera soltanto se è unita a un cuore pulsante.
Questa è la via delle arti marziali?
Alle prese con l’autismo, cominciai il karate a ventisei anni su suggerimento di un amico psichiatra. Furono inizi duri per i problemi che mi comportava l’ottenimento di ogni risultato, però chi impara con maggiore sforzo può acquisire abilità più profonde e sarà un insegnante migliore comprendendo di più le difficoltà degli allievi. Sarebbe opportuno introdurre le arti marziali nelle scuole, perché darebbero equilibrio e capacità di concentrazione ai bambini, incanalerebbero l’aggressività e bilancerebbero una vita sempre più smaterializzata. Rischiamo di perdere la fisicità, dimenticando che dobbiamo vivere nel corpo. Credo che tanta povertà intellettuale sia dovuta al fatto che ci si affida solo alla mente. Quelli della mia generazione, almeno, sperimentavano una realtà più concreta, sanguigna.
Si rischia di ridurre le abilità manuali al touch screen.
Suonando il pianoforte e praticando arti marziali sono consapevole della complessa relazione tra le dita e il cervello. E preferisco ancora la penna al pc.
Qual è il legame tra scrittura e arti marziali?
Non avrei scritto come ho scritto se non avessi conosciuto il karate. Nel gesto marziale cerchi il rapporto perfetto tra la forma e l’interiorità con migliaia di ripetizioni. È lo stesso con le parole: la scrittura è un immenso lavoro di pulizia, un combattimento in cui devi sapere da dove attaccano i nemici.
I suoi due mondi, palestra e letteratura, si sono mai incrociati?
Qualche volta, ed è stato divertente. Quando insegnavo a Roma, a Monteverde, dopo la prima lezione dell’anno sentii le nuove iscritte scambiarsi le impressioni e una commentò: “La maestra è bravissima, somiglia tanto alla Tamaro ma è molto più simpatica”. Un’altra volta in uno stage a Perugia la ragazza con cui capitai in coppia disse: “Sai che sei uguale alla Tamaro? Sto preparando la tesi di laurea su di lei…”. Non poteva credere che la scrittrice fosse una karateka.
A casa sua nessuno coltivava le arti marziali?
No, ma c’era l’interesse per l’oriente. Mio padre aveva studiato il cinese e uno zio, Bruno Veneziani, curò la traduzione dello “I Ching” tuttora in commercio.
Consulta lo “I Ching”?
Solo sulle scelte difficili. Non ha mai sbagliato.
Chi è stato il suo maestro più importante?
Toshio Tamano. Mi ha introdotto al Goju-ryu di Okinawa, il più vicino alla matrice originaria cinese. Lessi un suo libro quando ero già cintura nera e lui insegnava in Francia. Gli scrissi una lettera con la stilografica che cominciava “Cher Maître…”. Rispose subito e fu buffo quando c’incontrammo: Tamano e Tamaro…
Quando lo rivedrà?
Ho ripreso ad allenarmi dopo un incidente e preparerò l’esame per il quarto dan.
Tiene davvero più al karate?
Quel che dovevo scrivere ho scritto: i miei libri sono stati più una “missione”, tra virgolette, che un desiderio culturale. Ne ho fatti trentotto e va bene così, però non posso rinunciare all’allenamento per la salute fisica e mentale. Il corpo lo chiede e il corpo è più intelligente di noi. Forse frequenterò anche il judo per imparare a cadere meglio. So che a Milano hanno inaugurato corsi per over 60 perché saper cadere salva la vita agli anziani.
Cos’è la tradizione nelle arti marziali?
Ciò che ci è stato tramandato e che dobbiamo tramandare agli altri.
E la tradizione letteraria?
Non lo so, non mi fregio di cultura letteraria. Ho un curriculum più vasto nelle arti marziali, una grande biblioteca specialistica e una videoteca dove c’è di tutto: dai classici degli Shaw Brothers alla parodia di Franco e Ciccio. Ho studiato quindici anni anche il Taijiquan, di cui molti trascurano l’aspetto applicativo, mentre non amo gli sport da combattimento che sono pura violenza.