Non può che essere prudente la risposta sul lascito di Bergoglio. Non bisogna confondere i processi in cui si è trovato e che non ha causato, quelli che ha assecondato senza causarli e infine i pochi che ha attivato
In momenti come questi è davvero difficile riflettere sull’impatto del pontificato di Francesco sulla situazione ecclesiale e civile del nostro paese. Innanzitutto per l’emozione. Essa è ancora più forte in chi ha dovuto combinare l’atteggiamento di sincero ascolto per il Papa richiesto a un credente e la fatica a comprendere Francesco e a volte a condividerne le parole, fatica forse dovuta a una affezione al Vaticano II e a Paolo VI contratta in giovane età. Alla emozione si aggiunge il fattore tempo. La domanda sull’impatto di Francesco deve essere affrontata sin da subito per rispetto dello stesso pontefice e per non disperderne l’eredità, ma non ci si può illudere di poterle rispondere in modo accettabile prima che con gli anni lo sguardo si sia fatto un po’ più lucido e gli effetti della sua azione siano divenuti pian piano più evidenti.
Dunque è tra dovere e prudenza che ci si deve muovere. E la prudenza richiede innanzitutto di provare a non confondere i processi in cui Francesco si è trovato e che non ha certo causato, quelli che ha magari assecondato senza però causarli e infine quelli, fatalmente pochi, che ha invece attivato. Se del processo di secolarizzazione prendiamo solo la dimensione costituita dalla crisi delle religioni “di chiesa”, possiamo dire che contro questo processo Francesco non è stato un antidoto. I numeri, per l’Italia e non solo, parlano chiari. Il processo di secolarizzazione, nel significato ristretto del termine qui impiegato, è proceduto spedito e anzi ha accelerato. Forse dovremmo riconoscere che alcune scelte pastorali adottate da Francesco hanno ulteriormente sospinto il cattolicesimo verso le forme di una “religione a bassa intensità” (Turner). Queste scelte, magari concepite con l’intento opposto, hanno contributo alla accelerazione di cui s’è detto. Dovremmo però subito aggiungere che, come ampiamente documentato in letteratura, tali scelte non hanno fatto altro che proseguire e magari intensificare opzioni introdotte da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI. Si pensi ad esempio alla trasformazione del papa da authority in celebrity (nel senso weberiano del termine).
Inserito nella storia della proiezione sociale del cattolicesimo italiano il magistero di Francesco ha avuto l’effetto di rialimentare e rilegittimare quel particolare filone che storici come E. Poulat e R. Moro hanno definito “intransigentismo moderato”. Dalla fine dell’Ottocento, in Italia come altrove nell’Europa continentale, il cattolicesimo è stato segnato – semplificando – dal conflitto non di rado assai duro tra quattro diversi atteggiamenti nei confronti della modernità e della modernizzazione. Due di questi avevano tratti estremi: da un lato l’intransigentismo (radicale opposizione alla modernità) dall’altro il modernismo nelle sue espressioni più acritiche verso i riti e i miti della modernità (o almeno verso quella che ne veniva ritenuta l’unica versione, quella razionalista e giacobina o idealista). Tra queste due posizioni estreme e tutto sommato minoritarie si collocavano e si sfidavano altre due correnti, ben più consistenti. Da un lato, quella che finì per prevalere nel Vaticano II e ben rappresentata da Paolo VI. Essa, senza sacralizzare la modernità, ravvisava in questa un kairós, una grande opportunità per la fede e la Chiesa. Campioni italiani ne furono, tra gli altri, Rosmini, Manzoni, Sturzo, De Gasperi, per l’appunto Montini, il Bachelet presidente della Azione Cattolica. Caratteristica di questo orientamento fu il non confondere la modernità razionalista (francese e tedesca) con quella critica (anglofona) e di cogliere in quest’ultima le provvidenziali opportunità di cui si diceva. Di contro stava la corrente per l’appunto definita “intransigentismo moderato” la quale sostanzialmente intendeva combattere la modernità con armi moderne (i mass media e le organizzazioni di massa ad esempio).
La crisi degli anni venti del Novecento fu letta come il fallimento tanto del comunismo quanto del capitalismo di mercato e così alimentò nell’intransigentismo moderato il sogno in tante varianti (inclusa quella clerico-fascista) di una terza posizione, cattolica, che puntava sul ripristino della cristianità per via politica (e per mezzo dello stato), di una cristianità “nuova” (Maritain). Le radici culturali nell’Argentina peronista e l’orientamento radicalmente critico verso la modernità anglosassone hanno fatto di Papa Bergoglio il promotore di un ritorno di fiamma nel cattolicesimo italiano di quell’intransigentismo moderato che era stato contenuto nella e dalla Dc degasperiana e che era stato delegittimato teologicamente dal Vaticano II e da Papa Montini. Gli stessi Giovanni Paolo II (si pensi alla Centesimus annus) e Benedetto XVI (si pensi ai discorsi a Londra e Berlino), per quanto più prudenti del predecessore bresciano, erano rimasti impegnati nel dialogo ravvicinato tra cattolicesimo e liberalismo, giungendo a vedervi con Ratzinger lo sviluppo del provvidenziale incontro tra diritto romano non codificato e cristianesimo verificatosi a partire dall’Alto Medioevo. A questo proposito (e non solo) è di poco aiuto il riferimento a Francesco come “papa gesuita”. Nel corso del Novecento, infatti, l’ordine fondato da sant’Ignazio di Loyola ha visto gli ambienti gesuiti romani e “La civiltà cattolica” su posizioni distantissime da quelle di altre grandissime figure di gesuiti come De Lubac, von Balthasar, Karl e Hugo Rahner, Murray e da ultimo Martini. Uno degli effetti del pontificato di Francesco è stato quello di ridare fiato allo spirito “pacelliano” (cfr. Pio XII) e “romano” (nel senso dello stile di questa particolare Chiesa locale), mentre il pontificato di Paolo VI aveva significato il ridimensionamento di quel filone (“pacelliani” e “romani” per due volte avevano cacciato G.B. Montini poi Paolo VI, esiliato Sturzo su ordine di Mussolini e combattuto invano De Gasperi). In questo momento la spinta di Francesco ben si inserisce in un movimento che vede lo stesso occidente “atlantico” rinnegare se stesso. Fermi restando alcuni punti di grande distanza tra i due, forse con il tempo apparirà meglio anche qualche non secondario punto di contatto tra Francesco e Trump. La questione ucraina ne è un primo esempio, la indulgenza verso Russia e Cina ne sono altri due.
In linea con le proprie matrici religioso-culturali, la preferenza di Francesco a privilegiare la frattura basso vs. alto rispetto a quella destra vs. sinistra ha concorso in Italia (e non solo) al processo di riorientamento dello spazio politico. Il moralismo prevalente nella sinistra italiana – come ben spiegato su queste colonne da Andrea Graziosi – ha fatto sì che i “laici” (da Scalfari, a Beppe Grillo, a Fabio Fazio) credessero di poter arruolare papa Francesco e ha fatto sì che molti cattolici si sentissero ulteriormente incoraggiati nel loro vagabondare da sinistra a destra e da destra a sinistra, ché nella prospettiva di Francesco grande spazio resta per il conflitto tra una destra (del “basso”) e una sinistra (del “basso”). In poche circostanze come nel caso della reazione alla ingiustificata, illegale ed efferata aggressione della Russia di Putin all’Ucraina tutto ciò è stato evidente sino a toccare l’apice in un pacifismo che non considera più che per il magistero cattolico l’unica pace degna di questo nome è quella che coincide con l’opus iustitiae, giustizia che a sua volta esige la credibile minaccia della sanzione e quindi anche la superiorità militare di coloro che difendono i diritti.
Uno dei più marcati punti di contatto tra la cultura pastorale di Pio XII e quelle di Wojtyla e di Ratzinger, e simmetricamente uno dei punti di maggiore distanza tra la ecclesiologia di questi e quella montiniana e del Vaticano II, risiede nella preferenza per un forte accentramento del governo ecclesiastico. Nella prospettiva del centralismo pastorale il vero problema non è costituito dalla autonomia (anche dottrinale, liturgica e disciplinare) di realtà quali i movimenti, bensì dalla dignità delle Chiesa diocesane e dei loro vescovi. Di questa cultura di centralismo pastorale fa parte la convinzione di poter legare direttamente al papa i movimenti, i gruppi, le comunità eccentriche ed autocentrate, convinzione che spesso si accontenta di ridursi ad una pia illusione. Questa linea ecclesiologica che cerca (e si illude) di combinare accentramento del potere e diversificazione della offerta religiosa, linea opposta a quella montiniana e del Vaticano II, è stata non marginalmente proseguita da Francesco fino a giungere ad provvedimenti prima impensabili, quale quello di concedere l’incardinazione del clero in associazioni di chierici alternative alle Chiese diocesane e perciò prive di riferimenti vincolanti ad un vescovo. Sarebbe stato difficile spingersi più lontano.
Francesco, come aveva promesso, ha attivato processi che è impossibile sottovalutare. Citando i due più noti non si pretende affatto di aver esaurito l’elenco. Innanzitutto Francesco ha fatto compiere un salto di qualità al processo sinodale riprendendo la intuizione montiniana e allargandola – fatto inedito – all’intero popolo di Dio. Lo ha fatto in modo approssimativo, informale, a volte contraddittorio, ma ha compiuto un atto di portata tale da rendere difficilmente immaginabile una sua revoca, un radicale dietrofront. Qualcosa di simile e forse di ancor più radicale è avvenuto nel caso della condizione delle donne nella Chiesa. Anche a questo proposito, come giustamente messo in luce dal teologo Andrea Grillo, le forme nelle quali si è concretizzata la scelta di riconoscere la piena dignità delle donne nella vita ecclesiale presentano ancora elementi di contraddittorietà non solo canonica, ma propriamente teologica. Tuttavia, Francesco ha avuto il merito di aprire una porta che – se Dio vuole – difficilmente potrà essere richiusa e oltre la quale resta possibile procedere in modo più lineare, più coerente e più spedito.
Una delle differenze che più colpiscono se si confronta il pontificato di Francesco con quello dei predecessori è la parsimonia di argomenti teologici e magisteriali impiegati dal Pontefice a sostegno delle proprie scelte. E’ come se vi fosse una certa ritrosia o perlomeno come se non si avvertisse l’urgenza dell’esercizio del munus docendi. Anche in questo caso la vicenda della aggressione militare di Putin all’Ucraina offre un esempio chiaro. Stando al Catechismo della Chiesa cattolica, l’azione svolta dal governo Zelensky corrisponde a un preciso dovere che i governanti hanno e che è quello di difende i diritti dei concittadini. Non si tratta di patriottismo, sentimento ambiguo e non di rado pericoloso, né di “guerra giusta”, perché gli ucraini e le ucraine non hanno mosso alcuna guerra ad alcuno. Si tratta invece della difesa di diritti inviolabili delle persone la quale, ricorrendo a pieno le quattro condizioni previste dal Catechismo, costituisce un dovere per le autorità politiche legittime di quel paese, e per tutti gli altri di andare in loro soccorso. Francesco non ha mai dato una spiegazione teologica del suo mancato riconoscimento di tale dovere. Né il suo magistero può essere sostituito o bilanciato da qualche presa di posizione della diplomazia vaticana. In altri casi, ad esempio in materia di morale familiare o di disciplina dei sacramenti, alcune importantissime prese di posizione sono state consegnate ad una nota a pié pagina. D’altra parte, però, Francesco ha abbondato di gesti straordinariamente eloquenti: dalla visita a Lampedusa alla scelta di non risiedere nel palazzo apostolico (perché allora non in Laterano se è vescovo di Roma?), dall’abbraccio caldo e diretto ai sofferenti sino alla familiarità sincera, corporale, non occasionale con gli ultimi ed i diseredati. In presenza di poche parole e molti gesti una domanda si impone. Cosa ci vuol dire Francesco con la sua eloquenza gestuale e la sua parsimonia e a volte la sua approssimazione dottrinale? A me pare che in questo risieda uno dei punti più fecondi del suo magistero e del suo ministero, e uno che sembra aver non solo influito, ma essersi virtuosamente intrecciato con alcuni dei tratti più vitali e profondi del cattolicesimo italiano. Primo: Francesco molto probabilmente intuisce che c’è una novità nel Vaticano II che non sappiamo ancora dire bene, ma cui nondimeno dobbiamo già essere fedeli.
Con i suo gesti eloquenti e le sue poche e vaghe parole Francesco ci ricorda che alla fine, e non solo per un cristiano, ma per ogni uomo e per ogni donna (cfr. Mt 25), ciò che conta sono le decisioni pratiche, le scelte … Chi disse non vado, ma andò, è migliore di chi disse vado, ma non andò (Mt 21, 28-31). Secondo: Francesco, questa volta in assoluta continuità con il Vaticano II, Paolo VI ed i pontefici successivi, ha insegnato, sebbene non primariamente a parole, che la religione del Vangelo è la carità (Paolo VI, allocuzione del 7 Dicembre 1965). Certo, resta il fatto – indiscutibile – che se non si va lontano quando alle parola non si accompagnano le opere, neppure si va molto lontano quando alle opere non si accompagnano le parole. Nel meditare e approfondire la eredità di Francesco sarebbe bene non farsi distrarre né scandalizzare dal molto probabile e sicuramente tempestivo riposizionarsi di tanti della odierna corte bergogliana. Del resto, quanti dei bergogliani di oggi erano ratzingeriani ieri e wojtyliani ieri l’altro? Che una corte si formi è inevitabile e ciò non dipende dal re pro tempore, dipende invece dalla debolezza spirituale dei cortigiani. “Disse ancora ai suoi discepoli: E’ inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono’” (Lc 17, 1). Più che mai e forse più di sempre la eredità di Francesco è un compito aperto. Difficile, molto difficile, ma aperto.