Il filo rosso di Papa Francesco con la Cina

Un successo o una catastrofe? Cosa resta dell’Accordo con il regime di Xi Jinping voluto dal Pontefice

Il 22 ottobre 2024 l’Accordo vaticano-Cina del 2018 è stato rinnovato per la terza volta, per altri quattro anni e non per due come nei casi precedenti. Un comunicato stampa della Santa Sede ha definito i risultati raggiunti “proficui”. Immediatamente, due reazioni hanno accolto il rinnovo dell’accordo. I critici cinesi (e non) dell’accordo, tra cui la cerchia del vescovo in pensione di Hong Kong, il cardinale Joseph Zen Ze-Kiun, hanno visto nel rinnovo il segno finale di un “tradimento” e di una “svendita” del Vaticano al regime di Xi Jinping. Coloro che hanno sostenuto l’accordo (o si sono adoperati per farlo firmare) fin dall’inizio, hanno presentato il rinnovo per quattro anni come un vero e proprio trionfo, come nel caso di un articolo su Avvenire del 23 ottobre 2024 di Agostino Giovagnoli, esponente della Comunità di Sant’Egidio e da sempre uno dei più strenui sostenitori dell’appeasement con la Cina. Questo accordo definisce la politica di Papa Francesco con la Cina, diversa da quelle dei suoi predecessori, molto meno disponibili a cedere alle richieste del regime cinese, anche se non chiusi a ipotesi di dialogo.

Papa Francesco ha fallito o addirittura “tradito” i cattolici cinesi come pensa il cardinale Zen, o ha ottenuto un “trionfo” storico che solo in futuro capiremo come afferma Giovagnoli?

A mio avviso, entrambe le posizioni sono unilaterali ed eccessive. Pur amando e rispettando la straordinaria vita e testimonianza del cardinale Zen, non penso che categorie come “tradimento” e “svendita” siano strumenti interpretativi adeguati a definire il modo in cui Papa Francesco ha affrontato una situazione estremamente complicata. Certamente, Papa Francesco non è mai stato un sostenitore del pensiero di Xi Jinping sulla religione che mira a ridurre tutte le religioni a semplici portavoce di un regime politico. Senza contare, viste le politiche cinesi di aborto forzato che continuano anche dopo la fine del principio del figlio unico, che Francesco ha ripetutamente paragonato gli aborti agli omicidi della criminalità organizzata, a costo di mettersi nei guai con alcuni paesi occidentali.

E’ anche importante ricordare che, mentre altre diplomazie occidentali rappresentano governi che devono rendere conto agli elettori, questo non è il caso del Vaticano. Il Papa è eletto da un piccolo gruppo di cardinali, non dai membri della Chiesa. Questo significa, tra l’altro, che i diplomatici vaticani, come è sempre accaduto nella storia, possono permettersi di pensare in termini di decenni o addirittura di secoli, non dei pochi anni che separano un paese dalle sue prossime elezioni. Sono convinto che alcuni di loro credano sinceramente che nel lunghissimo periodo l’accordo sarà davvero “proficuo”. E sostenere che le previsioni o le speranze su quanto accadrà tra decenni o secoli sono sbagliate è inutile. Nessuno può sapere come andranno le cose nel lunghissimo periodo. Inoltre, il “non” rinnovo dell’accordo avrebbe causato problemi agli ex cattolici clandestini che sono “riemersi” dopo la firma del primo documento nel 2018. Ora non possono tornare alla clandestinità senza gravi rischi personali.

Ma non sono nemmeno d’accordo con chi celebra la politica cinese di Francesco come un successo trionfale. Sono consapevole del fatto che a vescovi cinesi è stato permesso di partecipare a eventi in Vaticano, compreso l’ultimo Sinodo, e a rappresentanti vaticani di visitare la Cina. Non escludo possibili effetti positivi di questi viaggi. Tuttavia, vanno considerati anche gli effetti negativi, in termini di legittimazione di un regime che persino le timide Nazioni Unite hanno dichiarato colpevole di “crimini contro l’umanità” e diversi Parlamenti di paesi democratici hanno censurato per il suo “genocidio” degli uiguri. Il prezzo da pagare per questi viaggi sono stati i riferimenti minimi e quasi impercettibili di Francesco al genocidio nello Xinjiang, alla distruzione della cultura tibetana, alla scomparsa della democrazia a Hong Kong e alla persecuzione di tutte le religioni non autorizzate in Cina. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno ricordato ai cattolici ultraconservatori come l’arcivescovo Marcel Lefebvre, che si sarebbero accontentati della libertà religiosa solo per i cattolici, che si sbagliavano. La libertà religiosa, hanno detto, è indivisibile, in quanto è un diritto umano fondamentale, non un privilegio di una sola Chiesa. Nel pontificato di Francesco, molti si sono chiesti se questi insegnamenti valgano ancora anche per la Cina.

Ma in Cina non c’è una vera libertà religiosa nemmeno per i cattolici. Sì, le chiese affiliate all’Associazione patriottica cattolica cinese sono aperte, ma lo erano anche prima della firma dell’accordo nel 2018. A parte il fatto che i minorenni non possono partecipare alle loro attività, già allora funzionavano normalmente. Ma anche in questo caso c’è un prezzo da pagare. Il magazine quotidiano che dirigo, Bitter Winter, che pubblica reportage dalla Cina non basati sulla propaganda del regime, descrive regolarmente sacerdoti costretti a cantare le glorie del Pcc e di Xi Jinping e a organizzare pellegrinaggi a musei e monumenti rivoluzionari piuttosto che a santuari mariani. Uno dei risultati è che il numero di fedeli che frequentano le chiese cattoliche leali al regime non aumenta ma diminuisce. Per quanto riguarda i preti e fedeli “obiettori di coscienza” che rigettano l’Accordo Vaticano-Cina del 2018 e continuano a rifiutare di aderire all’Associazione patriottica, il cui numero è invece in crescita, non c’è traccia del “rispetto” per loro che era stato richiesto da linee-guida vaticane pubblicate nel 2019. Quando sono individuati, spesso finiscono in carcere.

Che non tutto funzioni bene nemmeno per quanto riguarda la nomina dei vescovi cattolici, che in fondo è l’oggetto dell’accordo, è stato dimostrato dalla saga del 2023 del nuovo vescovo di Shanghai, forse la diocesi più importante della Cina. La Santa Sede ha dichiarato ufficialmente di aver appreso che il vescovo Shen Bin era stato trasferito a Shanghai “dai media”. Per il bene dell’accordo, il vescovo Shen Bin è stato poi legittimato “ex post” dal Papa e persino invitato a una conferenza vaticana a Roma. Ma non si è trattato di un incidente di poco conto. Si è ripetuto nel caso del vescovo Ji Weizhong, che il 19 luglio 2024 secondo un comunicato delle autorità cinesi è stato “eletto” vescovo di Lüliang. Peccato che a quella data una diocesi di Lüliang, di cui Pechino aveva chiesto la creazione, neppure esisteva. Anche qui, il Vaticano di Francesco ha poi “sanato” la situazione comunicando di avere riconosciuto la nuova diocesi e il nuovo vescovo il 20 gennaio 2025, cioè il giorno in cui è stato pubblicamente consacrato.

Credo che il segno più evidente che, finora, l’accordo fra la Chiesa di Papa Francesco e Pechino non è davvero “proficuo” sia la consultazione regolare del sito ufficiale della Chiesa cattolica cinese detta “patriottica” e riconosciuta dal governo (e ora anche dal Vaticano). A differenza di qualsiasi altro sito ufficiale cattolico del mondo, non ci sono notizie sugli insegnamenti, le attività o i documenti del Papa. Ma ci sono molte notizie sui pellegrinaggi “rossi” ai siti storici del Partito Comunista e sul dovere dei cattolici di studiare i documenti del Pcc e di Xi Jinping.

Nessuno può dire ora quali frutti darà nel lungo o lunghissimo periodo la politica di Papa Francesco sulla Cina. Nel breve periodo, tuttavia, non si può non ammettere che i frutti sono stati negativi, e per certi versi addirittura catastrofici.

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