La grande illusione di Papa Francesco

L’elezione di Jorge Mario Bergoglio a Pontefice ebbe un grande significato simbolico. La sua sembrava la strategia ideale per scuotere l’Europa e ricondurla a se stessa. Non è accaduto nulla di tutto questo

La sera che Papa Francesco si affacciò per la prima volta dalla grande Loggia di San Pietro ero felice come lo erano sicuramente tutti i cattolici del mondo. La sua elezione era un’ulteriore dimostrazione di qualcosa, che occorre sempre tenere presente quando si parla della Chiesa, e cioè che la cifra privilegiata di questa istituzione è l’imprevisto. Lo Spirito, si sa, soffia dove vuole. Così, in barba a tante previsioni, ci ritrovammo un papa che veniva “dalla fine del mondo” e che aveva deciso di chiamarsi Francesco: un segno straordinario dell’imprevedibilità, della vitalità, dell’universalità, della libertà che contraddistinguono la chiesa di Gesù Cristo, e dell’impossibilità di inquadrarne le vicende cruciali, in questo caso l’elezione del suo Sommo Pontefice, dentro schemi politici inevitabilmente troppo attenti a ciò che è mondano, ad esempio se hanno vinto i conservatori o i progressisti, e molto meno a ciò che mondano non è. La chiesa è certamente un’istituzione che ha a che fare con la politica, ma non è un’istituzione che può essere ridotta a politica.

La Chiesa è un’istituzione che ha a che fare con la politica, ma non è un’istituzione che può essere ridotta a politica



Salutando i confratelli cardinali prima di ritirarsi in quel di Castelgandolfo, Benedetto XVI aveva parlato della Chiesa come di una “realtà vivente”, che proprio per questo, per fortuna, è sempre oltre rispetto alle sue sclerotizzazioni istituzionali e alle inadeguatezze degli uomini. Queste naturalmente ci sono, si vedono e la contaminano spesso fino all’immondizia, ma non impediscono al suo corpo vivo di rinnovarsi e di sorprendere. Ecco allora la decisione stupefacente di Benedetto XVI di farsi da parte, ed ecco l’elezione a Sommo Pontefice dell’arcivescovo di Buenos Aires, il gesuita Jorge Mario Bergoglio, per me allora quasi uno sconosciuto.



Salutai l’arrivo di Papa Francesco con questo spirito di infantile e fiduciosa sorpresa, interessato soprattutto al significato che la sua elezione avrebbe potuto avere per la Chiesa, per l’Europa e per il delicato momento storico che entrambe stavano attraversando, ben oltre le note vicende della pedofilia, dello Ior o della crisi economica. L’Anno della fede, proclamato da Benedetto XVI prima di andarsene con quel poco di energia fisica che gli era rimasta, ma con un vigore e una lucidità intellettuale che non dimenticheremo facilmente, doveva essere, non a caso, una sorta di strenuo tentativo di richiamare alla mente e al cuore dei credenti l’“essenziale” della loro fede: “Gesù Cristo redentore dell’uomo”, unitamente alla consapevolezza che la crisi della chiesa e dell’Europa cristiana era soprattutto una crisi di fede. Per questo l’elezione di Jorge Mario Bergoglio a Sommo Pontefice ebbe per me un grande significato simbolico. La interpretai come una chiara denuncia del nostro torpore, la riprova che la grande semina di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI aveva prodotto i suoi frutti migliori al di fuori del nostro continente e che ci voleva qualcuno che venisse a scuoterci. E in effetti, fin dai suoi primi discorsi, ebbi l’impressione che papa Francesco proprio questo volesse fare.

Chiarì subito i registri privilegiati del suo pontificato: poveri, misericordia, custodia, tenerezza, speranza



Forte del lavoro già avviato dai suoi due predecessori, sembrò che egli volesse chiarire subito quali fossero i registri privilegiati del suo pontificato: i poveri, la misericordia, la custodia, la tenerezza, la speranza. Niente di nuovo ovviamente. Eppure nuovissimo apparve subito il suo modo di proporre certe parole. Fu come se la grande riflessione dottrinale e antropologico-culturale portata avanti da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI trovasse in Francesco un’interpretazione originale, non meno rigorosa, ma più lieve, francescana appunto, che si configurava soprattutto come vicinanza, simpatia, condivisione. Le sue esortazioni a non essere “tristi”, a operare secondo “il cuore di Dio” richiamavano certo i ripetuti riferimenti alla “gioia” del suo predecessore, ma soprattutto la letizia francescana, la capacità di coltivare sempre la speranza. E il popolo di Dio si sentì subito come contagiato. Lo stesso si può dire della parola “custodire” utilizzata da Francesco nell’omelia della messa inaugurale del suo pontificato, allorché, rivolto soprattutto ai potenti, li esortò a essere “custodi” del creato in generale e dell’uomo in particolare. Dal punto di vista magisteriale tali omelie non contenevano nulla di nuovo, eppure certe parole sembravano come dette per la prima volta. A conferma che, col suo stile e la sua parola, papa Francesco stava davvero scuotendo tutti.



Fedele al metodo teologico e pastorale dei suoi due grandi predecessori, anche Francesco sembrava puntare tutto sulla sintesi che pastori e fedeli debbono saper realizzare tra fede e vita. La croce di Cristo assunta come criterio teorico e pratico della umana esistenza, la croce guardata (e portata) come segno di speranza per se stessi e per gli altri: questo sembrava essere il metro di misura col quale anche il nuovo Papa si apprestava ad affrontare i problemi drammatici del nostro tempo. Abituati come eravamo (e siamo) a buttarla subito in “politica”, molti interpretarono le sue parole e i suoi gesti con categorie inadeguate, come se fossero “di destra” o “di sinistra”, trascurando il monito dello stesso Francesco a non essere “collezionisti di anticaglie o di novità”, bensì testimoni autentici della parola di Gesù. Per parte mia consideravo sia la semplicità, l’umiltà, lo stupore, la letizia che trasparivano dalle sue parole e dai suoi gesti, sia la sua insistenza sulla croce, l’amore e la misericordia di Dio come la strategia più efficace per un cristianesimo che volesse essere vivo e vitale, capace di incidere, anche politicamente, sulla realtà, senza ridursi a politica né a sterile moralismo: la strategia ideale per scuotere l’Europa e ricondurla un po’ a se stessa. Invece non è accaduto nulla di tutto questo.



Man mano che Francesco prendeva posizione sui grandi mali del mondo – le guerre, le violazioni dei diritti umani, le disuguaglianze, le situazioni di sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente contrarie alla nostra vocazione di “custodi” – il suo magistero, non soltanto si rivelava sempre più indifferente all’Europa (altro che aiutarla nella sua crisi), ma anche sempre più ispirato da una cultura eminentemente politica, a tratti populista e moralista, tendente addirittura ad avvalorare gran parte degli stereotipi responsabili della crisi nella quale la chiesa e l’Europa si dibattevano e si dibattono ancora oggi. Grande successo mediatico, ma chiese sempre più vuote e un magistero sempre più appiattito sulla mentalità dominante. Faccio alcuni esempi.

Lo slancio profetico della denuncia si indebolisce proprio per il fatto di apparire troppo legato alle logiche del mondo



Ammettiamo pure che il magistero dei pontefici immediatamente precedenti a Papa Francesco sia stato troppo concentrato sui temi cosiddetti “non negoziabili”, come vita e famiglia, siamo sicuri che il fatto di aver privilegiato altri temi, come l’ambientalismo, la critica del mercato capitalistico o il terzomondismo, sia da considerarsi un passo avanti? Siamo sicuri che siano stati un passo avanti il Sinodo sulla famiglia celebrato nell’ottobre del 2014 o quello sulla sinodalità ancora in corso? Siamo sicuri che sia stato un passo avanti l’acquiescenza col governo cinese che perseguita vescovi e fedeli cattolici? Siamo sicuri che siano stati un passo avanti il suo stile di governo della Chiesa? Lo dirà il tempo, ma ho molti dubbi. Ritornando alla denuncia appassionata da parte di Francesco dei mali del mondo, primi fra tutti la guerra, la povertà, i disperati che cercano di sfuggirvi, l’inquinamento ambientale, in essa c’è sicuramente la volontà di essere vicini agli “ultimi” che contraddistingue da sempre il magistero della Chiesa e, soprattutto, le sue innumerevoli opere di carità. Ho tuttavia l’impressione che la sua denuncia delle cause di questi mali sia troppo “umana”. Nel momento in cui Papa Francesco addita i mercanti di morte e il mercato capitalistico come i principali responsabili dei suddetti mali (imputazioni peraltro assai opinabili), è un po’ come se venisse edulcorata la loro tremenda, tragica serietà. Con la conseguenza che lo slancio profetico della denuncia si indebolisce proprio per il fatto di apparire troppo legato alle logiche del mondo, al limite, troppo politico e troppo poco escatologico. Un danno, questo, che si ripercuote sia sulla chiesa che sulla politica. Specialmente quando, come è accaduto con la guerra in Ucraina e a Gaza, si rimane impigliati in ambiguità di varia natura, che urtano soprattutto la sensibilità delle vittime.



Ciò che intendo dire è che non ogni denuncia, in quanto tale, può dirsi profetica. La profezia rappresenta sempre un’iniezione di realismo all’interno della politica in generale, proprio perché nel denunciare le storture del tempo presente, non trascura mai la “realtà effettuale” né il mysterium iniquitatis che l’avvolge. In questo senso, spingendo a guardare oltre, a non abbandonarsi al torpore della decadenza, a immaginare concrete alternative ai mali che ci affliggono, la profezia svolge un prezioso servizio culturale, del quale il mondo ha sempre urgente bisogno. Ma non è appellandosi ai buoni sentimenti del politicamente corretto, parlando male del mercato capitalistico e manifestando nostalgia per il popolo e la nazione come ne parlava Perón che si diventa profeti o si fronteggiano le gravi sfide del tempo presente.

Ha considerato l’Europa una sorta di causa persa, abbandonandola al suo destino. Un gigantesco errore culturale



Francesco, bisogna riconoscerlo, si è ritrovato a fare il papa in una situazione drammatica sia per la chiesa che per l’Europa. Affievolitasi la sua anima cristiana, l’Europa appare ormai impermeabile a qualsiasi tratto di vitalità e langue non da oggi nel brodo caldo della sua decadenza. La guerra in Ucraina e il nuovo corso dell’Amministrazione americana stanno mettendo a nudo impietosamente tutte le sue debolezze. La sua ricchezza economica, le sue istituzioni politiche, la sua maestosa tradizione culturale sembrano senz’anima, una sorta di enorme guscio vuoto che non riesce più a guardare oltre la propria decrepitezza. Basta pensare alla sua demografia. Questa Europa avrebbe un grande bisogno della Chiesa. Ma anche la chiesa, forse proprio per aver voluto essere troppo politica, sembra essere diventata sempre più irrilevante, sempre più incapace di generare fede e speranza. Oltretutto, anziché puntare ostinatamente alla sua ri-evangelizzazione, ha considerato l’Europa una sorta di causa persa, abbandonandola al suo destino. Un gigantesco errore culturale. Proprio l’Europa, infatti, diciamo pure, l’uomo europeo, nato principalmente nel grembo del cristianesimo, è ciò di cui oggi il mondo intero avrebbe massimamente bisogno.

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