Tra Casa Bianca e Fed i rapporti sono stati spesso apertamente conflittuali, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, Oggi il presidente lancia accuse senza alcuna coerenza, mentre il segretario al Tesoro ha cominciato lo scouting per la prossima guida della banca centrale americana
Secondo Ralph Hawtrey quella del banchiere centrale è un’arte, per Jerome “Jay” Powell gran capo della banca centrale americana è un’arte divinatoria. L’economista inglese intimo amico di John Maynard Keynes scriveva nel 1932, quando il grande crack del 1929 a Wall Street aveva sconvolto Main Street con quella che verrà ricordata come la Grande depressione. Oggi il presidente della Fed non si trova ad affrontare nessuna caduta di profitti e salari, né milioni di disoccupati nelle strade. La crisi che ha di fronte è provocata dall’incertezza, anzi dalla imprevedibilità. Non ci sono miliardari che si gettano dai grattacieli, c’è un miliardario che s’è insediato alla Casa Bianca e non sa che cosa fare. Dollaro su o giù, meno debito o meno tasse, dazi o non dazi, biglietti verdi o criptovalute, crescita o inflazione: tutto dipende dagli umori, da chiacchiere sul campo di golf, dal frusciare del denaro. Come districarsi in questo groviglio?
“Siamo ben posizionati per aspettare una maggiore chiarezza prima di considerare qualsiasi aggiustamento della nostra posizione politica”, ha detto Powell giovedì scorso. Al Commander in chief è salito il sangue agli occhi: aspettare? E cosa aspetta? “Powell è sempre in ritardo” ha tuonato, ribadendo che prima se ne va e meglio è. Trump vuole che tagli i tassi d’interesse, Powell dice che la crescita è rallentata e i dazi faranno crescere i prezzi, ciò rende più difficile mantenere l’equilibrio tra i due mandati della Fed: la massima occupazione e la minima inflazione. Non solo. La nuova amministrazione sta compiendo “cambiamenti sostanziali in quattro aree distinte: commercio, immigrazione, politica fiscale e regolazione”. Poche volte si è visto all’opera un mix del genere e gli effetti sulla economia restano incerti. Apriti cielo: “Powell fa politica”, ha sbraitato Trump. Si è allevato in seno un principe di Condé, il capo della Fronda contro il re Sole.
I rapporti tra Casa Bianca e Fed hanno sempre avuto alti e bassi; spesso sono stati apertamente conflittuali soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, cioè da quando con una scelta tutta politica Richard Nixon nel ferragosto 1971 mise fine all’equilibrio costruito nel dopoguerra tra dollaro, oro e tutte le altre monete. Da allora la valuta americana ha cominciato a salire e scendere, spesso in modo erratico, provocando crisi profonde che hanno squassato i rapporti internazionali: dal dollaro super debole degli anni ’70 a quello super forte nel decennio successivo, dalle tempeste valutarie del 1990-91 dopo la caduta del muro di Berlino agli aggiustamenti dovuti alla nascita dell’euro. Sempre il banchiere centrale è dovuto correre ai ripari. Powell non è il primo né sarà l’ultimo, anche perché una nuova crisi valutaria s’avvicina. Anzi secondo l’Economist ci siamo già.
La fine del sistema di Bretton Woods è stata accompagnata da una banca centrale asservita al presidente: Nixon ottenne da Athur Burns, collega e seguace di Milton Friedman, una politica monetaria espansiva per favorire la sua rielezione nel 1972, seguì (lo ricorda Donato Masciandaro) un forte aumento dei prezzi che divenne iperinflazione dopo che nel 1973 scoppiò la crisi petrolifera. Tra presidenza e Fed si era creata una relazione perversa, tanto che nel 1977 e nel 1978 vennero approvate due leggi che obbligavano la Fed a render conto al Congresso, aumentando l’indipendenza dal potere esecutivo. Paul Volcker, nominato da Jimmy Carter, nel 1979 usò alla grande la sua autonomia con una scelta clamorosa: un aumento vertiginoso del tasso d’interesse fino al 19,1 per cento che stroncò l’inflazione e provocò una recessione lunga tre anni. “No pain no gain” era il motto di Volcker; le pene arrivarono subito, i guadagni quando alla Casa Bianca “regnava” ormai Ronald Reagan.
Quello di Volcker è stato chiamato “monetarismo positivo”; questo signore della moneta (è il titolo di una sua biografia), alto due metri, incallito fumatore di sigaroni, chiarì anche a Reagan che non intendeva piegarsi ai capricci della politica e Ronnie lo accettò. Il suo ciclo si chiuse nel 1987 mentre un dollaro troppo forte preparava una grave crisi monetaria scoppiata lunedì 19 ottobre (il “lunedì nero”) quando la guida della Fed era passata ad Alan Greenspan, più pragmatico, ma non meno indipendente, uomo di mondo di finanza, salottiero, buon suonatore di clarinetto, con una vaga somiglianza con Woody Allen, è stato il banchiere della globalizzazione, ha servito quattro presidenti tra i quali Bush padre e figlio, oltre a Reagan e a Bill Clinton. Ha affrontato con energia lo sconquasso seguito all’11 settembre 2001 quando l’attacco di Al Qaida avrebbe potuto far saltare anche il sistema finanziario (era il piano di Osama bin Laden e dei suoi burattinai sauditi). Al suo successore, l’economista Ben Bernanke, è toccato affrontare il collasso della Lehman Brothers e il grande crack del 2007-2009 al quale è seguita la crisi dei debiti europei. Ha avuto il pieno sostegno sia di George W. Bush sia di Barack Obama e ha messo mano a un gigantesco salvataggio delle banche.
Artista o scienziato, accademico o finanziere, quando il banchiere centrale è stato libero di agire, sia in modo consensuale come Greenspan e Bernanke, sia senza guardare in faccia a nessuno come Volcker, la divisione dei poteri ha riportato sempre l’equilibrio; mentre chi si è piegato come Burns ha solo aumentato il disordine. Powell adesso è chiamato a un’altra grande prova. Nominato da Trump nel suo primo mandato e confermato da Joe Biden, l’attuale presidente della Fed non si è rivelato un signor nessuno. Appena insediato decise di tornare alla normalità riducendo i titoli acquistati nel decennio precedente (quantitative tightening) e aumentando i tassi per bloccare l’inflazione. La pandemia lo spinse a cambiare completamente rotta inondando il mercato di moneta anche a costo di accettare un aumento dei prezzi. Molti associarono la sua scelta a quella fatta da Greenspan che aveva creato una “esuberanza irrazionale” (termine usato dallo stesso banchiere per spiegare la bolla internet scoppiata nel 2000). Certo, Powell ha riportato il toro a Wall Street come poche volte nella storia recente. Nel 2020 Trump era “molto soddisfatto” del suo banchiere centrale e Biden lo ha confermato con un consenso pressoché unanime: solo Elisabeth Warren aveva votato contro nella commissione bancaria del Senato alla quale spetta di dare il via libera.
Adesso The Donald lo mette sotto accusa senza alcuna coerenza: prima ha condannato la Fed di aver manovrato i tassi per favorire la rielezione di Biden, poi di non ridurre il costo del denaro per mettere i bastoni tra le ruote alla Trumpnomics. Sospetti e dilemmi senza soluzione, come per il dollaro: forte per contenere l’inflazione, debole per favorire l’export? Incertezza s’aggiunge a incertezza e la valuta americana cammina su un filo sottile. Powell per Trump è “un uomo pericoloso”, ma quel che non può sopportare è la sua indipendenza. Può licenziarlo? “E’ contro la legge” gli ha ricordato lo stesso Powell e il flaccido collo trumpiano si è fatto turgido. Il segretario al Tesoro Scott Bessent ha cominciato lo scouting per la successione. Se Trump farà come Nixon con una Fed ossequiente in vista, magari, di un terzo mandato, non ci sarà rifugio alla tempesta. Ma Bessent è uomo di mondo, on y soit qui mal y pense.