A distanza di quattro anni dall’assoluzione di tutti gli imputati dei due processi sulla presunta corruzione compiuta da Eni in Nigeria, il pm milanese sta portando avanti un terzo processo contro uno dei presunti mediatori della tangente (per i giudici mai esistita)
Ha visto crollare il processo Eni-Nigeria, su cui aveva lavorato per sette anni, con l’assoluzione di tutti gli imputati, sia nel filone ordinario che in quello abbreviato. E’ stato condannato in primo grado a otto mesi con l’accusa di rifiuto di atti d’ufficio per non aver depositato prove favorevoli alle difese nel suddetto processo. Si è visto non confermare dal Csm le funzioni di procuratore aggiunto, venendo declassato a sostituto procuratore, per il suo “modus operandi” fatto di “assenza di imparzialità ed equilibrio” (decisione confermata dal Tar del Lazio). Nonostante tutto ciò, il pm milanese Fabio De Pasquale non molla, anzi rilancia. Visto che non c’è due senza tre, De Pasquale ha deciso di portare avanti un terzo processo sulla vicenda Eni-Nigeria (stavolta senza il collega Sergio Spadaro, oggi in forza alla procura europea), accusando Aliyu Abubakar, un faccendiere nigeriano, di aver distribuito 520 milioni della mazzetta miliardaria che già due sentenze passate in giudicato hanno stabilito non essere mai esistita.
Abubakar era stato escluso dal processo principale soltanto per un vizio formale di notifica e il procedimento nei suoi confronti era così stato stralciato. A carico dell’uomo d’affari nigeriano la procura di Milano ha contestato la stessa imputazione avanzata nei confronti degli altri imputati (poi assolti), cioè quello di aver partecipato alla maxi corruzione internazionale, in particolare ricevendo dall’allora ministro del Petrolio della Nigeria, Dan Etete, 520 milioni di dollari in contanti da destinare come tangente ai membri del governo e ai vari pubblici ufficiali locali.
Vista che l’imputazione è la stessa di quella crollata clamorosamente nel filone principale con quindici imputati e in quello abbreviato a carico di due presunti intermediari, con i giudici che hanno stabilito l’inesistenza di qualsiasi tangente miliardaria, logica vorrebbe che la procura milanese chiedesse l’assoluzione di Abubakar (che, difeso dagli avvocati Roberto Rampioni e Carlo Farina, ha scelto anche lui il rito abbreviato). Ragioni di opportunità vorrebbero anche che a condurre il processo non fosse il pm Fabio De Pasquale, che con Spadaro ha condotto l’inchiesta poi crollata due volte in sede di giudizio ed è pure stato condannato in primo grado per aver nascosto prove favorevoli alla difesa di Eni. All’udienza tenutasi una settimana fa, invece, De Pasquale non solo si è presentato, ma ha anche chiesto al gup di condannare Abubakar a cinque anni di reclusione.
Il pm ha sostenuto che, sì, sarà anche vero che ci sono due sentenze passate in giudicato che demoliscono l’impianto accusatorio, ma il giudice può dare una diversa valutazione giuridica dei fatti. Ci si chiede quale potrebbe essere, vista l’assoluta assenza di prove della corruzione internazionale certificata da svariati giudici. Ci si chiede pure per quale motivo il procuratore di Milano Marcello Viola ha incaricato De Pasquale di condurre il processo.
Come se non bastasse, in questo terzo processo De Pasquale non ha mai depositato quegli atti favorevoli alle difese per i quali ha subìto una sentenza di condanna. Atti che, secondo il tribunale di Brescia che ha condannato De Pasquale, se fossero stati depositati in tempo avrebbero portato all’assoluzione degli imputati del processo Eni-Nigeria “già all’udienza preliminare”, e avrebbero evitato che nel secondo processo in abbreviato i due imputati venissero condannati in primo grado prima di essere assolti nei gradi successivi.
Ma non è finita: un anno fa l’Alta Corte di Abuja in Nigeria ha assolto i pubblici ufficiali nigeriani accusati dalla procura di Milano di aver intascato la tangente miliardaria e altri imputati. Tra questi c’è anche Abubakar. All’udienza dell’11 aprile De Pasquale si è però opposto alla richiesta avanzata dai difensori di Abubakar di acquisire la sentenza, avanzando tra le contestazioni anche il fatto che questa (lunga 78 pagine) non sia stata tradotta dall’inglese all’italiano. Un’opposizione singolare se si considera che fino a pochi anni fa, prima del disastro del processo Eni-Nigeria, De Pasquale coordinava il pool della procura specializzato nel contrasto alle corruzioni internazionali (si presume che conosca la lingua inglese).
Alla fine la sentenza non è stata acquisita e il risultato è stato che in udienza De Pasquale ha contestato ad Abubakar, come asserita prova della tangente pagata a un pubblico ufficiale nigeriano, una presunta dazione di denaro effettuata all’ex ministro della Giustizia Adoke Bello, e legata alla compravendita di un immobile. Un episodio sconfessato proprio nella sentenza dell’Alta Corte di Abuja.
Alla luce di tutti questi aspetti paradossali, gli avvocati Rampioni e Farina hanno deciso di inviare un esposto al ministro della Giustizia Carlo Nordio, al Csm, al procuratore generale della Cassazione Pietro Gaeta e ai vertici della giustizia milanese (il procuratore di Milano Viola e la procuratrice generale Francesca Nanni), in cui ci si chiede “come sia ancora consentito” che De Pasquale continui a condurre il processo.