È il giorno del digiuno, dell’elemosina e della penitenza, nell’epoca in cui vogliamo esattamente l’opposto. Forse ci turba così tanto perché ci richiama a ciò che non vogliamo più essere
Nei giorni in cui la Bibbia va forte in tv, grazie alle trasmissioni che la raccontano, e va forte in edicola, grazie ai libri che la interpretano, c’è davvero ancora spazio per il Venerdì Santo? È il giorno del digiuno, nell’epoca in cui il cibo è diventato dovere del fitness o vizio da gourmet. È il giorno dell’elemosina, nell’epoca in cui il denaro è diventato un codice astratto da trasferire con un clic. È il giorno della penitenza, nell’epoca in cui è d’obbligo rivendicare con orgoglio qualsiasi propria azione.
Il Venerdì Santo ci presenta un corpo martoriato e nudo nell’epoca in cui il corpo viene nascosto, censurato, truccato, filtrato, oscurato, sublimato, rifratto; ci racconta il calare del silenzio in un’epoca in cui si parla, si parla, si parla continuamente, non si fa altro che parlare. Soprattutto, il Venerdì Santo è il giorno che segna il momento in cui contemplare una sconfitta che appare definitiva; inammissibile, nell’epoca in cui conta solo l’ostensione del successo. La presenza del Venerdì Santo nella nostra quotidianità postmoderna non ci inquieta perché ci pone di fronte alla questione di ciò che saremo nell’eternità: ci turba perché ogni anno ci richiama a ciò che abbiamo scelto di non essere più.