La rabbia di Belgrado è seria

Le proteste in Serbia tra le tecniche e le ispirazioni del presidente Aleksandar Vucic per rimandare la fine

La scommessa del presidente serbo Aleksandar Vucic è semplice: prima o poi i manifestanti che da sei mesi protestano contro il governo e il capo dello stato si stancheranno e torneranno a casa. Invece ogni settimana le proteste si fanno più grandi, si gonfiano. Gli studenti rimangono il centro delle manifestazioni, danno l’impulso organizzativo e ai loro cortei si aggiungono varie categorie che scendono in strada da Novi Sad, dove tutto è cominciato, a Belgrado.

Le proteste chiedono che vengano rispettate le richieste di trasparenza, nate dopo che a Novi Sad una pensilina è caduta uccidendo sedici persone. Non è il primo disastro di un’infrastruttura e i cittadini ritengono che il governo stia mettendo in pericolo la loro vita con corruzione e appalti truccati. In sei mesi i manifestanti hanno iniziato ad aggiungere lamentele e richieste, hanno capito che le dimissioni del primo ministro, Milos Vucevic, altro non erano che un contentino per placare la folla.

Vucic è al potere da tredici anni, era stato il ministro della Comunicazione, o meglio della Propaganda, di Slobodan Milosevic, che pure cadde dopo un’ondata di proteste meno lunga ma molto intensa. Allora come oggi i cittadini si radunano davanti alle sedi della televisione pubblica, che oggi come allora sono accusate di essere utilizzate dal presidente come propri organi di informazione. Vucic, che pure ha visto dove può portare la forza della rabbia quando è organizzata, sembra sottovalutare le proteste che continuano imperterrite nel paese e non si fermano né davanti alle promesse né davanti all’intimidazione della polizia.

Alcuni analisti serbi dicono che è l’inizio della fine di Vucic e il presidente non è preparato. Il rischio è che sia preparato, dopotutto ha visto bene come evitare che la fine arrivi davvero: in Russia la repressione intensa può tenere al potere per oltre vent’anni.

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